Più volte mi sono trovata a condividere gli approcci fenomenologici, sia in psicologia che nelle scienze sociali, convinta del fatto che il lavoro sull'unicità abbia delle corsie preferenziali per la rimozione delle cause dei problemi umani, e che quindi anche una minore standardizzazione metodologica possa meglio ritagliarsi sulle esigenze dell'oggetto di studio senza inficiare le impellenze conoscitive del così detto "scienziato".
Ma giunta ormai a un bivio, alla necessità, cioè, di fare una scelta, mi rendo conto che è proprio dalla definizione classica di studioso che devo partire, se voglio cambiare il punto di vista.
La salute mentale è un ambito decisamente toccante e coinvolgente, perchè, a meno che non si rimanga su un piano estremamente superficiale, ti costringe a guardarti in faccia e comprendere i tuoi fantasmi e pregiudizi, prima ancora di poter "capire" veramente gli altri.
Con un'espressione un tantino weberiana - passatemela... anzi colgo l'occasione per condividere uno dei miei oggetti di venerazione ^_^ - partirei dal fatto che il vero poblema è la comprensione. E - rivelo subito chi è l'assassino - attraverso la comprensione passa e si articola il problema del pregiudizio e quindi dello stigma, e dei sui annessi e connessi.
Ci sono "casi", che non saprei dire se più commuoventi o più fortunati, che hanno espresso il proprio disagio mentale attraverso l'arte. O un qualcosa che la società identificava come tale. Nei loro confronti mi è parso, e potrei citare Van Gogh o Cézanne come casi noti, che il dibattito scientifico abbia più facimente ammesso un approccio fenomenologico al problema. Non solo: nel sentire comune il loro esser diversi pareva un'eventualità con cui ci si deve aspettar di fare i conti quando si è artista.
In altre parole, i grandi artisti aflitti da disagio mentale avevano una chance in più dei loro "equivalenti mentali" (ammesso e non concesso che si possa fare un'equivalenza tra menti... è una semplificazione), una minima riserva inscalfibile di dignità . E l'accesso ad almeno alcuni "rituali sociali" (un esempio italiano può esser la vita di Ligabue).
Ma per tutti i "Vincent" ospedalizzati, trascurati fino a che non resta altra risposta se non il TSO (e per il bene di chi? Del "paziente" o di chi gli sta intorno?), isolati, dimenticati dai familiari, dagli amici, dal welfare, chi è disposto a stare ad ascoltare? Chi si assumerà il ruolo di accoglierne pienamente le istanze, il punto di vista?
Possiamo sperare, immutate le posizioni scientifiche tradizionali (o rinviata la riflessione su quelle che ri-propongono una nuova via, per esempio questa), che gli studiosi deputati a raccogliere le istanze di questi testimoni privilegiati smettano di adattare il contenuto - la vita dei pazienti psichiatrici - al contenitore - la scienza, e capiscano l'importanza di adattare semmai il contenitore al contenuto?
Trent'anni fa un mal canalizzato entusiasmo post-Goffmann portò molti esperti (Basaglia in prima fila per quanto riguardava l' Italia) a ritrattare tutto: riforme a tappeto (anche senza le disponibilità economiche per attuarle), rinegoziazione del rapporto medico-paziente (guardate se vi capita il film-documentario San Clemente, una produzione francese che riuscì a coglier il clima culturale e politico della L.180 per intercessione di Basaglia stesso)... ma nel frattempo la mal disposizione nei confronti degli utenti psichiatrici, la diffidenza sociale, o, per dirla nelle giuste parole, lo stigma, sono davvero venuti meno?
Sicuramente in molti - specialmente i c.d. utenti - avranno pensato che "gli altri" avrebbero finalmente ascoltato le loro ragioni. Dopo tanti anni e tante sperimentazioni, però, la sensazione è che ci sia ancora molta strada da fare e che se il mondo scientifico (quello che a mio avviso ha maggiore responsabilità nel condizionamento ed avvallamento dei pensieri e delle pratiche del senso comune) non cambierà rotta, riprendendo le conclusioni della canzone di McLean, perhaps they never will.
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