mercoledì 30 dicembre 2009

Scarabocchi e concentrazione

Nella mia pluriennale carriera studentesca ho trovato, ad ogni livello scolastico, notevoli difficoltà nel fare capire ai prof. che non sono affatto distratta. Anche nelle conversazioni impegnative con persone che giudicavo importanti: non mi sto facendo all'improvviso i fatti miei!
Mi riferisco alla mia ineludibile esigenza di cominciare a disegnare. C'è il periodo in cui deformo scritte, quello in cui faccio scarpe (specie col tacco alto e sottile), poi animali fantasy, mostri, ma la figura che va per la maggiore è in assoluto la figura femminile intera (che inizio spesso a disegnare partendo dai piedi), o michelangiolescamente incompleta, come se aspettassi che finissè da sè di emergere dal resto del disegno, o ancora profili, occhi, visi, mani. A voglia insistere: "Mi serve, mi aiuta a concentrarmi". Le uniche persone che l'han capito ci sono arrivate da sè, con l'osservazione, e con qualche prova del tipo:"Ripeti quello che ho detto" (a cui rispondevo citando interi discorsi con estrema precisione), mentre mi coglievano in flagrante a invadere i bordi dei quaderni per gli appunti, interi fogli di taccuini e persino il retro dell'involucro di merendine o cioccolate (e regalandoli poi al primo che esclama "Oh, ma che bellooo!").
Ora, mi dilettavo a guardare un post arretrato di un blog che sono solita frequentare specie se sono in cerca di ispirazione per le mie - umili - creazioni, quando, oplà, l'autrice nel citare quelli che lei chiama dislogrammi risolve una pluriennale questione anche per me.
Finalmente uno studio da ragione a quanti, come me, vogliono concentrarsi a modo loro su ciò che richiede attenzione, in barba a chi non capisce questo loro stato di apparente trance, o distrazione.
Perchè però lo faccio così spesso? Evidentemente sono sempre concentrata (su quello che voglio io, obviously)!
;-)
ps: non so se i miei "colleghi" pubblicheranno altri post il 31. In ogni caso, colgo l'occasione per fare i migliori auguri per un proficuo 2010 a loro, a quanti ci hanno letto finora, e a quanti ci scopriranno poi!

mercoledì 9 dicembre 2009

Diagnosi e terapia dei disturbi mentali

In medicina uno dei momenti cruciali del processo terapeutico è la diagnosi. Infatti solamente dopo che un certo disturbo è stato identificato è possibile curarlo facendo riferimento a tutto il corpus di conoscenze scientifiche che su di esso sono state accumulate nel tempo. Semplificando, una volta diagnosticata una frattura si sa ad esempio che per curarla è bene applicare all'arto fratturato un gesso che lo immobilizzi, così che l'osso al suo interno possa lentamente ricrescere e la funzionalità dell'arto possa essere recuperata. E' interessante notare come la diagnosi "frattura" permetta al medico di arrivare ad una terapia senza che questi debba lambiccarsi più di tanto il cervello sul perché della frattura stessa. Che si sia caduti, o scivolati, o che si sia finiti male nel tentativo di realizzare un Guinness dei primati, la soluzione sarà sempre la stessa. Non solo: una volta che il nostro braccio o la nostra gamba saranno guariti difficilmente ce li romperemo di nuovo... ...o almeno così si spera :)
I più informati potranno ora aver pensato: "E l'osteoporosi? Come la mettiamo?" Essi avranno pensato a questo punto ad un'altra etichetta diagnostica, che individua una qualche forma di predisposizione ad avere fratture. Dico "una qualche forma", perché anche di "osteoporosi" così come di "frattura" e pressoché di ogni altra diagnosi esistono molteplici varietà. Laddove un paziente dovesse riportare molteplici fratture in un breve periodo di tempo il medico che dovesse averlo in cura potrebbe doversi preoccupare non più solo della terapia delle singole fratture ma anche della presa in carico di una osteoporosi.

Perché mi dilungo (si fa per dire) su questi disturbi fisici, di competenza medica?
Volevo degli esempi che mostrassero chiaramente come la diagnosi è né più né meno che uno strumento, un passo del complesso processo terapeutico. Il terapeuta una volta fatta una diagnosi è in grado di ricollegare i sintomi lamentati dal paziente ad un più o meno preciso insieme di conoscenze scientifiche (o perlomeno supposte tali), e di scegliere così la o le forme di terapia che ritiene più adeguate per la cura del disturbo stesso.
Volevo inoltre far rilevare dei concetti importanti: una cosa è il disturbo ("il male in sé"), un'altra la diagnosi ("l'etichetta che il clinico attribuisce al disturbo"), un'altra ancora (o altre ancora) le cause che determinano il disturbo stesso ("eziologia"); rimane inoltre da considerare che una volta posta una certa diagnosi (non sempre certa, a volte solo probabile), e quindi una volta ipotizzate la presenza di un certo disturbo nonché, se possibile, delle eziologie per lo stesso, il clinico dovrà ancora scegliere tra molteplici forme di terapia prima che il paziente possa arrivare ad ottenere la sua tanto agognata guarigione.

A cosa servono queste precisazioni?
Per cominciare, dovrebbero metterci in guardia rispetto ad un errore fatto talvolta persino nel mondo della medicina, cioè usare etichette diagnostiche relative a dei disturbi per identificare un paziente. Pensando al passato abbiamo l'esempio del "lebbroso", o dell' "appestato"; oppure, fino a non poco tempo fa sapevamo di dover stare attenti a parlare di "portatore di handicap" e non di handicappato (ora diremmo forse "diversamente abile" ma questa è, per così dire, un'altra storia). Nell'ambito dei disturbi mentali il pericolo e la frequenza di questa confusione è ancora maggiore: "...lascialo stare a quello, lui è..." ...un depresso", "...un drogato", "...uno schizofrenico", etc etc. Un'etichetta diagnostica è assolutamente insufficiente già solo per identificare un disturbo, figuriamoci per descrivere una persona; anche senza considerare gli effetti dello stigma sociale che discendono da questa identificazione (già accennati nel precedente post di l'identificazione del paziente stesso in una diagnosi è talvolta un ostacolo alla sua guarigione (es: "sono fatta così, sono anoressica").

Oggi il paradigma di studio più accreditato delle cause all'origine di un disturbo mentale prevede che esse siano di tre diversi ordini: "bio"-"psico"-"sociali". In sostanza, perché ci sia un disturbo mentale dev'essere presente una combinazione di questi tre fattori. Grossomodo, la parte biologica fa riferimento alla base genetica di ognuno, che determina punti di forza ma anche di vulnerabilità, a seconda delle esperienze con cui poi l'individuo si dovrà confrontare (esagerando, immaginate un individuo con un comodo salvagente "in dotazione genetica", e quanto diversamente questo gli sarebbe d'aiuto a seconda del suo doversi confrontare con il mare o con un deserto); la parte psicologica consiste, sempre grossomodo, nel modo in cui ognuno di noi ha imparato a far fronte a determinate esperienze, modo magari adatto e quanto mai di successo nella stragrande maggioranza dei casi, ma, per esempio, insufficiente di fronte ad un terremoto (o anche davanti ad altre esperienze di vita meno estreme); la parte sociale è relativa infine alla maggiore o minore efficacia con cui le reti sociali in cui siamo inseriti possono aiutarci o ostacolarci nel far fronte a determinate esperienze.

Diagnosi di disturbi mentali identiche almeno limitatamente all'etichetta (ad es. "depressione maggiore") possono avere eziologie anche molto diverse tra di loro, avere un diverso tipo di substrato biopsicogenetico, e richiedere pertanto trattamenti anche molto diversi tra loro. Attualmente, un clinico (psicologo o psicoterapeuta) che voglia davvero fare una buona diagnosi dovrà stare bene attento ad individuare l'etichetta (o le etichette) diagnostica migliore tra quelle disponibili, approfondire anamnesi, storia familiare, notizie biografiche, struttura di personalità del paziente, escludere eventuali cause biologiche, e solo allora potrà con buona approssimazione scegliere tra le terapie possibili per quel disturbo proprio quella più efficace per quel singolo paziente.

In conclusione, è vero che una buona diagnosi ci semplifica grandemente le cose quando vogliamo avere informazioni relative all'andamento prevedibile medio di un disturbo mentale, ma ciononostante perché il disturbo mentale di un singolo paziente possa davvero essere curato la diagnosi di quello stesso disturbo non sarà che una piccola parte delle molte conoscenze che assieme al paziente dovremo acquisire non solo sulle specifiche caratteristiche del suo disturbo in particolare ma anche e soprattutto su di lui (il paziente stesso) più in generale nonché sul suo mondo "biopsicosociale".

giovedì 26 novembre 2009

Correlati neurali I: esempi e introduzione

Molte persone al mondo, spesso motivate da giornali troppo zelanti, pensano che i neuroscienziati siano quasi arrivati ad una comprensione della mente umana. Cosa vorrebbe dire comprensione? Una buona definizione mi pare: "Essere in grado di spiegare, al livello più elementare possibile, come e perche un essere umano si comporta in una data maniera". È abbastanza evidente che per rispondere ad una tale domanda sia necessario sapere preventivamente cosa accade nel cervello di una persona (dato che noi riteniamo il cervello essere l'implementazione della mente) quando essa si comporta in una data maniera. Sappiate, allora, che anche questa domanda è, in gran parte, senza risposta. Però la risposta, se ci fosse, avrebbe un nome altisonante: i correlati neurali. Un ruolo particolare hanno ovviamente i correlati neurali della coscienza.

Vorrei fare alcuni esempi di cosa si sa al livello di neuroni. Come abbiamo spiegato più volte, i neuroni sono cellule la cui attività si esprime tramite brevi scariche elettriche. Noi sappiamo con sicurezza che: ci sono percezioni o azioni che hanno come correlato neurale l'attività aumentata di alcuni neuroni; ci sono percezioni o azioni che hanno come correlato neurale l'attività diminuita di alcuni neuroni; neuroni correlanti con la stessa classe di rappresentazione (forma, colore, odore, movimento) simili sono facili da trovare in zone vicine del cervello; ci sono correlati che non sono l'attività aumentata o diminuità. Vi faccio alcuni esempi:

Attivitá aumentata

Non ve ne accorgete, ma voi muovete in continuazione il punto di fissazione del vostro occhio. Prima di ogni micromovimento, ci sono alcuni neuroni che si attivano.

Attività diminuita

Alcuni neuroni sono più attivi se un oggetto si trova in un punto abbastanza preciso del vostro campo visivo, ma meno attivi del solito se l'oggetto si trova nelle immediate vicinanze. Per saperne di più.

Zone

Neuroni che correlano con la direzione di movimento si trovano tutti in una zona particolare della corteccia visiva. Muovendosi di pochi micrometri, la classe di correlazione cambia.

Correlati diversi

Ci sono neuroni che aumentano solo lievemente la loro attività poco prima di un segnale motorio, mentre la regolarità della loro attività aumenta molto di più.

Questo riguarda il cosa. Ovviamente, sapere come vengono manipolate queste rappresentazioni è ancora molto, ma molto, ma molto al di là di venire. È capire se è possibile ridurre la mente ai suoi correlati neurali è una domanda probabilmente destinata a rimanere per sempre senza risposta.

martedì 10 novembre 2009

Reinforcement learning, parte prima: la ricompensa

Ho partecipato di recente a un convegno in Turchia, al quale era presente, tra gli altri, Allan Collins, il guru della nicotina.
Quando si parla di fumo si va subito alla dipendenza, al consumo di droghe, a come smettere. Ed ecco la prospettiva offerta dal luminare.

La nicotina è un composto agonista dell'aceticolina, un neurotrasmettitore presente nel sistema nervoso centrale e periferico. Normalmente l'aceticolina liberata da un neurone trasmittente si lega al recettore presente sulla superficie del neurone ricevente e scatena una certa risposta, a seconda delle proprietà del recettore. Quando é presente la nicotina, questa si lega al recettore al posto dell'aceticolina, attivandolo: perciò è detta "agonista".

Esistono recettori diversi per lo stesso neurotrasmettitore. Nel caso dell'aceticolina c'é un recettore chiamato "nicotinico", perchè vi si lega la nicotina, e uno chiamato "muscarinico", perché vi si lega la Muscarina. Quest'ultimo non ci interessa al momento.
Il recettore nicotinico é un canale, cioè una proteina con una cavità che, qualora "aperta" dalla giusta chiave, permette il passaggio di molecole responsabili della trasmissione del messaggio.
Il panorama é ancor più vario: ogni canale è costituito da piú subunità, che vengono assemblate per costruire il canale. Il nostro organismo è in grado di fabbricare subunità diverse anche per lo stesso canale, combinandole poi variamente per ottenere canali con proprietà leggermente diverse.

Quando si fuma si attivano indiscriminatamente tutti i canali nicotinici. Alcuni sono responsabili del benessere dato dal fumo per via del loro collegamento con neuroni dopaminergici. Altri canali agiscono nel sistema nervoso periferico procurando dolori di stomaco e altre sensazioni sgradevoli. Quello che in ultima analisi il fumatore ricerca é una po' di dopamina in piú, e per farlo si accolla il rischio di cancro, il sapore amaro della nicotina, le sgradevoli sensazioni intestinali.
Questo è un comportamento appreso: nessuno "nasce fumato".
Si apprende grazie a un particolare circuito che sfrutta la dopamina. Semplificando, una certa azione guida a un rilascio di dopamina nel cervello, e da ciò l'organismo "capisce" che l'azione che ha preceduto il rilascio di dopamina è una cosa buona, ed è bene prendere l'abitudine di compiere questa azione. È un tipo di condizionamento operante. Detto con un esempio, il mio andare in pizzeria é ricompensato da una buona pizza (cibo, rinforzo primario), mi sento bene e ci voglio tornare. Mi costa denaro, quindi devo lavorare per tornare in pizzeria. Lavorando ottengo i soldi necessari a procurarmi la pizza: col tempo il recarsi in pizzeria perde di significato e sposto l'azione decisiva sul lavoro e la ricompensa sul denaro (rinforzo secondario).

Così ragionava Allan Collins: perchè devo fumare e procurarmi inconvenienti per una spremutina di dopamina? Non esiste un farmaco più specifico, che si attacchi solo ai recettori responsabili delle sensazioni positive? Ma certo. Il concetto non é la nicotina, ma la ricompensa. Ebbene, ci sono altre ricompense: il sesso, ad esempio, fornisce col piacere un rinforzo primario. Col tempo questo rinforzo primario può essere parzialmente o interamente sostituito da un bacio, dal parlare con la persona amata, dal vedere la persona amata.

L'amore è il farmaco piú specifico per procurarci il benessere.

martedì 3 novembre 2009

Approccio fenomenologico e stigma.

Ritornavo quasi per caso sulle parole di Vincent, su cui mi ero già fermata a riflettere non troppo tempo fa all'interno di un progetto italonorvegese (ancora in fieri) sulla salute mentale, e non ho potuto fare a meno di riproporvi su un caro vecchio problema metodologico.

Più volte mi sono trovata a condividere gli approcci fenomenologici, sia in psicologia che nelle scienze sociali, convinta del fatto che il lavoro sull'unicità abbia delle corsie preferenziali per la rimozione delle cause dei problemi umani, e che quindi anche una minore standardizzazione metodologica possa meglio ritagliarsi sulle esigenze dell'oggetto di studio senza inficiare le impellenze conoscitive del così detto "scienziato".

Ma giunta ormai a un bivio, alla necessità, cioè, di fare una scelta, mi rendo conto che è proprio dalla definizione classica di studioso che devo partire, se voglio cambiare il punto di vista.
La salute mentale è un ambito decisamente toccante e coinvolgente, perchè, a meno che non si rimanga su un piano estremamente superficiale, ti costringe a guardarti in faccia e comprendere i tuoi fantasmi e pregiudizi, prima ancora di poter "capire" veramente gli altri.
Con un'espressione un tantino weberiana - passatemela... anzi colgo l'occasione per condividere uno dei miei oggetti di venerazione ^_^ - partirei dal fatto che il vero poblema è la comprensione. E - rivelo subito chi è l'assassino - attraverso la comprensione passa e si articola il problema del pregiudizio e quindi dello stigma, e dei sui annessi e connessi.
Ci sono "casi", che non saprei dire se più commuoventi o più fortunati, che hanno espresso il proprio disagio mentale attraverso l'arte. O un qualcosa che la società identificava come tale. Nei loro confronti mi è parso, e potrei citare Van Gogh o Cézanne come casi noti, che il dibattito scientifico abbia più facimente ammesso un approccio fenomenologico al problema. Non solo: nel sentire comune il loro esser diversi pareva un'eventualità con cui ci si deve aspettar di fare i conti quando si è artista.
In altre parole, i grandi artisti aflitti da disagio mentale avevano una chance in più dei loro "equivalenti mentali" (ammesso e non concesso che si possa fare un'equivalenza tra menti... è una semplificazione), una minima riserva inscalfibile di dignità . E l'accesso ad almeno alcuni "rituali sociali" (un esempio italiano può esser la vita di Ligabue).
Ma per tutti i "Vincent" ospedalizzati, trascurati fino a che non resta altra risposta se non il TSO (e per il bene di chi? Del "paziente" o di chi gli sta intorno?), isolati, dimenticati dai familiari, dagli amici, dal welfare, chi è disposto a stare ad ascoltare? Chi si assumerà il ruolo di accoglierne pienamente le istanze, il punto di vista?
Possiamo sperare, immutate le posizioni scientifiche tradizionali (o rinviata la riflessione su quelle che ri-propongono una nuova via, per esempio questa), che gli studiosi deputati a raccogliere le istanze di questi testimoni privilegiati smettano di adattare il contenuto - la vita dei pazienti psichiatrici - al contenitore - la scienza, e capiscano l'importanza di adattare semmai il contenitore al contenuto?
Trent'anni fa un mal canalizzato entusiasmo post-Goffmann portò molti esperti (Basaglia in prima fila per quanto riguardava l' Italia) a ritrattare tutto: riforme a tappeto (anche senza le disponibilità economiche per attuarle), rinegoziazione del rapporto medico-paziente (guardate se vi capita il film-documentario San Clemente, una produzione francese che riuscì a coglier il clima culturale e politico della L.180 per intercessione di Basaglia stesso)... ma nel frattempo la mal disposizione nei confronti degli utenti psichiatrici, la diffidenza sociale, o, per dirla nelle giuste parole, lo stigma, sono davvero venuti meno?
Sicuramente in molti - specialmente i c.d. utenti - avranno pensato che "gli altri" avrebbero finalmente ascoltato le loro ragioni. Dopo tanti anni e tante sperimentazioni, però, la sensazione è che ci sia ancora molta strada da fare e che se il mondo scientifico (quello che a mio avviso ha maggiore responsabilità nel condizionamento ed avvallamento dei pensieri e delle pratiche del senso comune) non cambierà rotta, riprendendo le conclusioni della canzone di McLean, perhaps they never will.

venerdì 23 ottobre 2009

Connessionismo. Un'introduzione

Per la comprensione della mente umana o anche solo di suoi singoli aspetti sono state utilizzate nel tempo diverse metafore, ed in particolare una nuova metafora, quella del computer, ha preso sempre più piede negli ultimi anni nell'ambito dello studio dei processi psicologici; essa s'è affermata contemporaneamente al diffondersi del cognitivismo come nuovo paradigma di ricerca in psicologia e con la visione dell'uomo come elaboratore di informazioni che questo ha spesso portato con sé. Il computer, anch'esso elaboratore di informazioni, grazie alla sua ormai "classica" distinzione tra hardware e software offre diversi spunti che sembrano aiutarci a capire qualcosa di più dell'uomo diviso tra mente e corpo, o tra mente e cervello. Però, nonostante il progressivo prevalere da Cartesio in poi della distinzione mente-corpo, e nonostante la tradizione ormai secolare che questa idea può vantare, è possibile ritrovare voci critiche, fuori dal coro, che ci mettono in guardia contro l'applicazione troppo semplicistica di questo dualismo (si pensi alla psicologia o alla medicina psicosomatica o, per rimanere in un ambito più vicino alle neuroscienze, alle idee sviluppate ad esempio da Antonio Damasio, 1994); ed in effetti è possibile ritrovare metafore alternative a quella del computer che permettono di andare oltre l'idea di un sistema cognitivo da studiare come cosa totalmente diversa rispetto alle reti cerebrali da cui esso è sostanziato. Ad esempio i primi computer svolgevano le varie funzioni logiche per cui erano stati sviluppati per mezzo della stessa struttura fisica che li costituiva (von Neumann, 1966); leggendo lo stesso von Neumann si scopre come sia stato in buona misura per un motivo opportunistico, e cioè a causa dell'inaffidabilità dei materiali di cui i primi calcolatori erano costituiti, che man mano si è arrivati all'espediente della distinzione tra hardware, inteso come struttura fisica di un computer, e software, inteso in maniera ampia come le varie funzionalità che un dato hardware è in grado di gestire.

C'è un paradigma di studio in particolare che ci permette di salvaguardare l'importante legame che è possibile intravedere tra la struttura delle nostre reti neuronali cerebrali ed il funzionamento della nostra mente: si tratta del paradigma connessionista, che ha il suo "manifesto" nel libro di Rumelhart & McClelland (1986) "Parallel distributed processing: explorations in the microstructure of cognition". Tramite questo paradigma è possibile in qualche modo giovarsi del rigore e della precisione formale propri dei modelli matematici, essere contemporaneamente attenti al lato psicologico dei fenomeni oggetto di studio (percezione, memoria, linguaggio, ragionamento, etc.), e infine recepire le indicazioni provenienti da vari studi più propriamente "biologici", di tipo neuropsicologico e di neuroimmagine.

Secondo questo paradigma l'elaborazione delle informazioni avviene nel nostro sistema cognitivo in modo parallelo, distribuito ed interattivo. I modelli connessionisti (o “reti neurali”) sono composti da unità (“neuroni virtuali”) aventi ognuna un certo valore d'attivazione (consistente in un semplice numero reale), e collegate tra loro da connessioni pesate (e cioè in qualche modo regolabili) di tipo eccitatorio o inibitorio (cioè esse rispettivamente possono aumentare o diminuire l'attivazione del neurone a cui si connettono). Quando un certo input, stimolo, è somministrato ad un sotto-insieme delle unità che compongono la rete, l'attivazione che questo input determina in esse si propaga per mezzo delle varie connessioni lungo tutta la rete, arrivando a determinare una certa attivazione finale nel sottoinsieme di unità di output (di uscita) della rete; questa attivazione finale dipende oltre che dalle connessioni esistenti anche dalla loro maggiore o minore forza. Per far sì che ad un certo numero di input corrisponda un determinato numero di ben precisi output si può fare affidamento su una serie di algoritmi creati appositamente per allenare secondo diversi criteri una rete neurale, oppure si possono anche settare le varie connessioni manualmente, a seconda del fenomeno che si desidera simulare e degli scopi per cui la rete viene costruita.

Le potenzialità di questo paradigma consistono soprattutto nella sua capacità di superare l'ottica di una divisione troppo netta tra mente e cervello, e negli spunti che esso offre a favore di una visione complessa e di interazione dei fenomeni oggetto di indagine. Ad esempio l'approccio connessionista getta una nuova luce sulla contrapposizione storica tra empirismo e innatismo, dal momento che i suoi modelli sono costituiti da un'ossatura innata su cui si innestano diversi processi per mezzo dei quali avviene un vero e proprio apprendimento su base empirica (il “training” di preparazione a cui vengono sottoposte le reti). Ancora, questo approccio porta nuovi contributi alla altrettanto storica contrapposizione tra elementismo e approccio molare, globale, in quanto i modelli connessionisti sostituiscono l'elaborazione localizzata dei simboli con operazioni distribuite, operazioni che danno luogo all'emergenza di proprietà globali.

In letteratura sono ormai noti diversi vantaggi e svantaggi dell'approccio connessionista rispetto all'approccio teorico simbolico classico di simulazione e teorizzazione dei processi cognitivi. Per quanto riguarda i vantaggi, le reti neurali sono robuste e flessibili: la distruzione di alcune unità di una rete neurale o la presenza di un input ambiguo causano un decadimento solo parziale delle prestazioni della rete; al contrario un modello realizzato secondo un approccio puramente simbolico che venga danneggiato o testato con input ambigui di solito fallisce completamente il suo obiettivo. Ancora, le reti neurali hanno delle capacità spontanee di generalizzazione assenti nei modelli classici, per cui ad esempio in compiti di categorizzazione riescono a gestire meglio le eccezioni e gli stimoli nuovi. Tra gli svantaggi bisogna certamente considerare invece che i modelli attuali non considerano molte delle differenze tra i diversi tipi di neuroni cerebrali, e non sono in grado ad esempio di simulare una importante proprietà dell'apprendimento umano: mentre le reti necessitano di lunghi cicli di apprendimento per arrivare a eseguire correttamente i loro compiti, all'uomo e a molti animali basta spesso fare esperienza una sola volta di un dato pericolo per apprendere ad esempio una risposta di evitamento.






Ulteriori riferimenti biliografici:
Damasio, A. R. (1994). Descartes' Error: Emotion, Reason, and the Human Brain. New York: Putnam Publishing
Garson, J. (pubblicato 2007, consultato Settembre 2008). Disponibile su http://plato.stanford.edu/entries/connectionism/
von Neumann, J. (1966). Theory of self-reproducing automata. Ed. by Arthur W. Burks. USA: University of Illinois.

lunedì 12 ottobre 2009

Livelli di apprendimento

Uno degli argomenti più importanti delle neuroscienze è l'apprendimento; è una sfida fondamentale capire quali sono gli algoritmi che permettono l'apprendimento. E, ovviamente, se tali sono veri algoritmi nel senso turinghiano del termine.

Oovviamente non ci riferiamo solamente all'apprendimento scolastico, o, in generale, in ambito umano. Ci riferiamo, invece, ad un concetto molto più ampio. Adesso andremo ad esaminare alcuni livelli a cui può avvenire l'apprendimento.

Piccola premessa: queste sono solo le mie personali opinioni in proposito, e non intendo dire nulla di definitivo, o anche solo di autenticamente scientifico, sulla questione.

Apprendimento esplicito eteronomo: con questo indico l'apprendimento che sono in grado di portare a termine esseri viventi se addestrati. In questo rientrano gran parte dell'educazione umana, ma anche l'addestramento di cani e cavalli da parte dell'uomo; l'educazione alla caccia negli animali. La trasmissione, insomma, di comportamenti non-innati fra individui diversi. La cultura, in senso lato, se volete.

Apprendimento implicito autonomo: ogni essere vivente, se esposto ad una pressione ambientale, modifica il suo comportamento per adattarsi all'ambiente. Questo vale sia per animali dotati di facoltà intellettive mediamente superiori, diciamo mammiferi ed uccelli, sia per animali dotati di facoltà inferiori, come i pesci o gli insetti. Vi faccio due esempi che mi hanno colpito molto.

Allo zoo di Stoccarda ci sono molte zone per animali delimitate da fossati, piuttosto che da gabbie. In tali fossati vivono carpe. Se vi avvicinate per osservare gli animali proiettando un ombra sul fossatto, osserverete che le carpe vengono a galla aprendo la bocca. Evidentemente hanno appreso che spesso e volentieri i visitatori lanciano loro da mangiare.

Ad un livello ancora più primitivo: il C. Elegans memorizza durante i primi stadi del suo sviluppo la temperatura a cui è stato cresciuto, e tende a muoversi sempre verso temperature simili.

L'esempio di C. Elegans è decisamente estremo! Infatti il nostro nematode dispone di poche centinaia di neuroni; quindi vediamo come il comportamento di movimento deve essere in qualche maniera codificato all'interno di questa piccola rete neurale, tramite le sue connessioni con i neuroni sensoriali. Questo ci porta all'apprendimento di livello più basso.

Apprendimento parametrico: questo è quello che realizzano le reti neurali; un certo output della rete neurale viene premiato o meno con una ricompensa (virtuale) e, a seconda di questa ricompensa, vengono rinforzate o modificate le connesioni, in maniera tale che la rete tenda ad ottimizzare la ricompensa che ottiene. Questo è il principio del reinforcement learning. Ovviamente, per questo tipo di apprendimento è necessaria un'istanza superiore che elargisca la ricompensa.

Quali sono le grande sfide delle neuroscienze? Vediamone alcune:

- capire quali sono i meccanismi esatti dell'apprendimento parametrico;
- cosa sono le istanze ricompensanti dei vari circuiti;
- capire quali e quanti sono i livelli dell'apprendimento implicito e come sono legati fra loro;
- capire come è possibile l'emergenza dell'apprendimento esplicito ad un livello più alto.

Capite la difficoltà dell'impresa?

martedì 29 settembre 2009

Apprendimento e memoria I : Tecniche 3. Lettura rapida

Mai sentito parlare di quei corsi che, una volta sborsata la cifra dovuta, vi permetteranno di leggere libro in un terzo, un quarto o un quinto del tempo? "Lettura rapida" la chiamano, e forse puó non attrarre il lettore di romanzi, che trae dalla sua attività svago e relax, ma quando si tratta di divoratori di saggi, la lettura rapida é un miraggio, una bellissima fata Morgana.

In quanto membro della seconda categoria di lettori ho letto un libro, completo di esercizi, sulla lettura rapida, dopo che alcuni amici avevano fatto un corso, senza peraltro ottenere alcun risultato degno di nota.
Generalmente si leggono 200-250 parole al minuto (ppm). Chi applica le tecniche di lettura rapida viaggia sulle 1000 ppm con una comprensione ancora apprezzabile, e alcuni leggono 5000 oppure 10000 ppm.
Io mi sono fermato a 700 ppm, poi ho smesso.

Il punto è che noi vorremmo, sì, leggere più rapidamente, ma non vogliamo rinunciare a comprendere e ricordare ciò che abbiamo letto. Per garantire l'apprendimento alla fine di ogni capitolo ci sono degli esercizi, consistenti in storielle al termine delle quali c'è una serie di domande. In base alle risposte si ricava un punteggio che quantifica la comprensione come percentuale rispetto al massimo punteggio ottenibile. Ho abbandonato la lettura rapida quando ho constatato che, nonostante ottenessi punteggi ragguardevoli su questo libello, i miei tentativi di applicare la lettura rapida a libri di testo conducevano a risultati disastrosi - con una fatica notevole, in quanto la tecnica in sè é piuttosto faticosa.

Vediamo come funziona e perchè funziona così.
Secondo i promotori della lettura rapida, la lettura comune é lenta in quanto procede parola per parola. Eppure il nostro campo visivo ci consente di leggere più di una parola per volta. Non solo: spesso pronunciamo mentalmente quello che leggiamo, rallentando ulteriormente, e tale lentezza conduce a una distrazione fatale. L'argomento tipico è: mentre leggi un libro di storia, la parola "Spagna", lasciata risuonare nella nostra coscienza, rievoca i ricordi dell'ultima vacanza, e della rivoluzione degli anni '30, descritta nel seguito del testo che stiamo leggendo, non ci resta piú nulla. Riassumiamo i punti in cui si potrebbe dunque migliorare:

  • Più parole per volta: ci si allena per espandere, o per meglio sfruttare, il campo visivo periferico;
  • Eliminare la vocalizzazione mentale: gli occhi sono capaci di cogliere le parole più rapidamente di quanto queste possano essere pronunciate, sia pur solo mentalmente;
  • Concentrarsi: é necessario focalizzarsi su ciò che si legge, senza lasciarsi distrarre dalle associazioni spontanee.
In pratica però io non sono il solo a sollevare dubbi sull'efficacia della lettura rapida in merito alla comprensione del testo, in particolare quando il contenuto diventa più difficile. Per farvi vedere come secondo me funziona il tutto, vi faccio un esempio.

Leggiamo questo articolo:

Un ragazzo marocchino di 14 anni è stato ferito con una coltellata alla schiena, dopo una lite per i troppi complimenti rivolti da un giovane alla ragazzina italiana che passeggiava con lui. E' stato giudicato guaribile in pochi giorni, ma poi dovrà vedersela con la giustizia. I carabinieri lo hanno infatti denunciato in stato di libertà, perchè irregolare sul territorio italiano. L'aggressore, probabilmente un connazionale, è scappato.

E' successo a Bergamo la notte scorsa, intorno all'una e mezza, in via Foro Boario, nei pressi di un bar. Il ragazzo marocchino stava passeggiando mano nella mano con una coetanea italiana, quando si è avvicinato un altro giovane, probabilmente già maggiorenne ed extracomunitario, che ha cominciato a rivolgere complimenti sempre più pesanti alla ragazzina.

Il quattordicenne lo ha invitato ad andarsene, ma poi è scoppiata una lite. Il ragazzino e la sua compagna hanno cercato di andarsene, ma a quel punto il più grande ha tirato fuori un coltello e ha colpito il quattordicenne alla schiena.
(27 settembre 2009)

Cerchiamo ora di ottimizzare il rapporto tra la quantità di informazione ricavata e il tempo impiegato. La tecnica qui illustrata si chiama skimming.

Un ragazzo marocchino di 14 anni è stato ferito con una coltellata alla schiena, dopo una lite per i troppi complimenti rivolti da un giovane alla ragazzina italiana che passeggiava con lui. E' stato giudicato guaribile in pochi giorni, ma poi dovrà vedersela con la giustizia. I carabinieri lo hanno infatti denunciato in stato di libertà, perchè irregolare sul territorio italiano. L'aggressore, probabilmente un connazionale, è scappato.

E' successo a Bergamo la notte scorsa, intorno all'una e mezza, in via Foro Boario, nei pressi di un bar. Il ragazzo marocchino stava passeggiando mano nella mano con una coetanea italiana, quando si è avvicinato un altro giovane, probabilmente già maggiorenne ed extracomunitario, che ha cominciato a rivolgere complimenti sempre più pesanti alla ragazzina.

Il quattordicenne lo ha invitato ad andarsene, ma poi è scoppiata una lite. Il ragazzino e la sua compagna hanno cercato di andarsene, ma a quel punto il più grande ha tirato fuori un coltello e ha colpito il quattordicenne alla schiena.

Mettendo insieme le parole in grassetto si ricavano le informazioni principali, che in questo articolo si trovano tutte nella prima parte. E ora vediamo qual era il titolo dell'articolo:

Ferito perché difendeva ragazza italiana Ma è clandestino, e viene denunciato


In pratica questo testo é facile da decodificare velocemente, perchè ha una struttura chiara, logica e poggia su un substrato culturale che ci é ben noto. Basta cercare alcune parole chiave per ricostruire una storia sensata che si memorizza e si ri-racconta con facilità. Se da un lato é molto facile da comprendere, dall'altro siamo abituati a questo genere di struttura, cioè nella nostra mente c'é una struttura preordinata che accoglie bene queste informazioni. Su questo abbiamo già scritto.
Leggiamo un testo diverso:

Il talamo è un ammasso di sostanza grigia, con sostanza bianca nello strato zonale che ne riveste la superficie superiore e nelle lamine midollari interna ed esterna. La lamina midollare interna si biforca anteriormente a Y, e divide il talamo principalmente in nuclei anteriori (compresi nella biforcazione), nuclei mediali e nuclei laterali. I nuclei laterali vengono distinti in dorsali e ventrali. Inoltre vi sono i nuclei intralaminari nello spessore della lamina midollare interna, il nucleo reticolare posto lungo la superficie laterale del talamo e i nuclei della linea mediana del talamo posti sulla superficie mediale dello stesso. La lamina midollare esterna separa il nucleo reticolare dal resto della sostanza grigia talamica.

Proviamo ad enucleare le informazioni più importanti:

Il talamo è un ammasso di sostanza grigia, con sostanza bianca nello strato zonale che ne riveste la superficie superiore e nelle lamine midollari interna ed esterna. La lamina midollare interna si biforca anteriormente a Y, e divide il talamo principalmente in nuclei anteriori (compresi nella biforcazione), nuclei mediali e nuclei laterali. I nuclei laterali vengono distinti in dorsali e ventrali. Inoltre vi sono i nuclei intralaminari nello spessore della lamina midollare interna, il nucleo reticolare posto lungo la superficie laterale del talamo e i nuclei della linea mediana del talamo posti sulla superficie mediale dello stesso. La lamina midollare esterna separa il nucleo reticolare dal resto della sostanza grigia talamica.

Questa volta il gioco di riunire le parole chiave ci lascia con un elenco di nomi privo di significato. Questo testo non solo è molto più denso di informazioni del precedente, ma gran parte dell'informazione sta nei legami tra le parole e in strutture grammaticali, come avverbi e preposizioni ("anteriormente", "sulla superficie mediale"), che non portano altrettanta informazione nel racconto di un fatto. Oltretutto le parole sono poco frequenti, perciò è necessario più tempo per processarle. Leggere questo trafiletto di fretta ha invariabilmente il risultato di avvicinare la comprensione allo zero.
Di sfuggita, aggiungiamo che il linguaggio non é la forma più adatta a questa descrizione, per questo esistono gli atlanti di anatomia, e perciò le mappe mentali hanno un vantaggio considerevole rispetto ai riassunti.

In casi come questo, leggere con calma e decodificare le parole una per volta diventa insostituibile.
E per memorizzare?

Certamente è necessario decodificare l'informazione prima di memorizzarla e attuare una tecnica appropriata, in questo caso non verbale. Ma facciamo alcune osservazioni circa la pronunica mentale delle parole.

In primis, qualunque cosa noi vogliamo memorizzare in modo dichiarativo, ossia tale da permetterci in seguito di ripeterlo, deve passare attraverso la memoria di lavoro. Questo tipo di memoria é multimodale, cioè processa informazioni visive e acustiche. Per cui privarsi di uno dei due canali è uno svantaggio.

In secundis, questo svantaggio lo compensiamo forse distraendoci meno? Improbabile. Per la memorizzazione, infatti, è fondamentale l'elaborazione semantica, benché sia un processo che richiede tempo. In altri termini, è assolutamente utile alla memoria pensare alla vacanza in Spagna mentre si legge della rivoluzione spagnola, in quanto facilita la "cattura" di quello che stiamo leggendo. Anche se costa più tempo.

In tertiis, potremmo obiettare che risparmiando l'80% del tempo possiamo leggere il trafiletto 3 volte, così da ridurre il nostro risparmio al 40%, ma ottenere una comprensione migliore. Senz'altro questo migliora la performance. Ma anche così i primi due punti che ho menzionato restano, e la lettura rapida è alquanto stressante.


Non comprate un corso di lettura rapida. Spendete al massimo 10 € per un libro, piuttosto che 500 € per un corso: sappiate, infatti, che se non avete la motivazione per arrivare alla fine del libro, neppure facendo un corso vi eserciterete a sufficienza per impadronirvi della tecnica. Tecnica che, in ogni caso, va bene solo per leggere il quotidiano ;)

domenica 30 agosto 2009

Comprendere

E' poi così tanto difficile comprendere gli altri? Non è qualcosa di spontaneo e naturale? A che pro, ad esempio, una figura professionale "fatta apposta per la comprensione degli altri" (quella dello psicologo)?

Un ottimo autore, Antonio Alberto Semi, fa notare in un suo libro la distinzione tra "facile-difficile" e "semplice-complesso". Non starò qui a ripeterla, ci si arriva con un po' di riflessione e/o di ricerca. Ad ogni modo, comprendere non è poi così difficile ma è complesso. Per comprendere la gente occorre rispettare degli accorgimenti ben precisi: per prima cosa, bisogna ascoltare la persona che si vuole comprendere; poi, bisogna riflettere sulle diverse ipotesi che inevitabilmente ci si fa riguardo quanto ascoltato/osservato; infine, bisogna confrontare le ipotesi che via via ci si forma su quanto capito con le intenzioni/idee del parlante.

Più nei dettagli, "ascoltare" vuol dire mettere momentaneamente da parte le proprie idee e i propri giudizi su quanto pensiamo stia per essere detto, per poter far posto soltanto a quanto verrà effettivamente detto. Fatto questo, bisogna raccogliere le idee e riflettere su quanto si è ascoltato, cominciando dal saperlo ricapitolare e ripetere nella maniera più fedele possibile rispetto all'originale.
Ricapitolando e ripetendo fedelmente con l'interlocutore quanto ascoltato si vedrà che questi spesso aggiungerà cose nuove, quelle che erano per così dire seppellite tra le pieghe di quanto era stato detto. Ancora, ricapitolando quanto detto spesso ci si renderà conto di avere dei punti oscuri su quanto appena ascoltato, dei significati non colti, o quanto meno non del tutto colti. Chiedere all'interlocutore dei chiarimenti su questi punti sarà qui essenziale.

A cosa serve attenersi a questi accorgimenti? Sostanzialmente a tre cose: primo, evitare fraintendimenti. Secondo, permettere al parlante di riordinare ulteriormente le sue idee, assieme a noi. Terzo, evitare di imbeccare noi stessi le risposte, di metterci troppo in mezzo con i nostri preconcetti.

Che effetto si può ottenere con questi accorgimenti?
Intanto, se proprio non si avranno effetti positivi quanto meno si eviterà all'interlocutore la frustrazione di parlare al muro.
Poi con un po' di pratica si potrà in questo modo avvicinarsi molto all'altra persona, al reale significato di quanto questa sta dicendo, in una parola si potrà comprenderla. E, come ben saprà chiunque almeno una volta si sia sentito compreso, questo non è poco.

giovedì 23 luglio 2009

Scale spaziali

Fra i vari problemi delle neuroscienze teoriche ce n'è uno che mi piace particolarmente; principalmente perchè mette in evidenza come un approccio riduzionista sia essenzialmente privo di speranza.

Mi riferisco al problema dell'integrazione fra segnali elettrici a varie scale. La scala più bassa è quella cellulare: si anestetizza un animale, e si cerca di registrare il potenziale di membrana di un neurone utilizzando un elettrodo che penetri all'interno del neurone. Non è particolarmente facile, ma si può fare.

Quello che si vedrà è un segnale molto irregolare, intervallato ogni tanto da grandi, rapide escursioni (spikes). Se si vuole averne un'idea, si osservi l'immagine qui.

Se invece, si inserisce nel cervello del nostro animale un elettrodo che non penetri le cellule, ma che si inserisca fra loro, per dirla in maniera semplice, si osserverà il potenziale extracellulare, che viene di solito filtrato per evidenziare la parte del segnale in bassa frequenza (LFP), o quella in alta frequenza (MUA). Si veda qua.

Se poi si va ancora più lontani dalla fonte del segnale, si può osservare il segnale EEG, che viene misurato all'esterno della testa, si veda qua.

La cosa veramente interessante è che oggi, nel 2009, a 136 anni dalla pubblicazione delle equazioni di Maxwell ancora di deve capire quali sono le relazioni fra questi tre segnali.

Si sa molto di come il segnale cellulare produce il MUA, e si incomincia a capire come il primo determina l'LFP; ma nulla si sa delle cause dell'EEG!

mercoledì 3 giugno 2009

La torre di Babele

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. [...] Si dissero l'un l'altro: [...] «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. [...] Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

dal libro della Genesi, 11

È difficile intendersi quando si parla una lingua diversa, e lo sanno coloro che hanno tentato di comunicare in queste condizioni. Questo è altrettanto vero quando si tratta di diverse branche del sapere, ad esempio nel caso di uno scienziato che cerca di comunicare con un filosofo. O un medico che cerca di comunicare con un fisico.
Sempre più siamo tenuti a farlo oggi, affinchè ad esempio un medico capisca cosa fa una risonanza magnetica e quali sono i limiti di questa tecnica, oppure perchè un fisico capisca a quali esigenze della medicina la sua applicazione andrà incontro.
Pertanto trovo critiche come:"I filosofi non dovrebbero occuparsi di neuroscienze, non è cosa loro" altrettanto in fondo nell'abisso dell'ignoranza quanto lo sarebbe la frase:"I cinesi dovrebbero starsene in Cina, dal momento che non sono neppure in grado di parlare un inglese decente".
Infatti, come può uno psicologo sentirsi "a posto" nel criticare un filosofo, quando egli stesso parla di cellule - che non ha studiato - composti chimici - che non ha mai neppure visto scritti, leggi della fisica che non conosce basate su una matematica di cui non ha mai sentito parlare? E come può non capire perchè il filosofo avverta l'esigenza di usare i dati neuroscientifici e di introdursi nel discorso? E come può non capire che la filosofia può essere per lui interessante quanto la medicina può esserlo per un fisico?
Ebbene, la risposta è semplice: una buona dose di orgoglio e di ignoranza, insieme, possono tutto.
È chiaro che ci sono delle difficoltà, e che spesso l'uno usa impropriamente la terminologia dell'altro. Ma non è un caso che numerosi grandi scienziati alla fine della loro vita si occupino di filosofia: forse, giunti a una maggiore conoscenza, si rendono conto di cosa c'è di utile nel sapere altrui. È bello quando il sapere porta un po' di umiltà.
Questo orgoglio invece mi indigna, ma che dico mi indigna, mi fa proprio incazzare!

domenica 24 maggio 2009

Cosa fa lo psicologo?

Questa domanda ha molteplici risposte. Una delle più valide la si ritrova all'inizio del terzo articolo del codice deontologico degli psicologi italiani:

"Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità.
In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace."

Il suo campo d'azione d'elezione non è quindi quello della patologia, dei disturbi, bensì quello dei processi normali. Uno psicologo può interessarsi ad esempio di come si sviluppino il linguaggio, o le capacità di lettura o la memoria, e studiare quindi successivamente tecniche specifiche che ci aiutino nello svolgimento di questi compiti. Egli si occupa quindi dapprima della comprensione dei processi di volta in volta oggetto di studio, e successivamente del loro miglioramento. E' a lui che spetta la scelta del suo specifico oggetto di studio e delle tecniche che impiega per studiarlo, così come la responsabilità dell'affidabilità del suo lavoro e dei suoi risultati.

Che poi siano psicologi dello sport, del lavoro, dell'età evolutiva, o quant'altro, è questo il motivo per cui è sempre più che giusto chiedere loro "sì, d'accordo, uno psicologo, ma lei cosa fa?"

martedì 12 maggio 2009

Psicanalisi come scienza... in breve ;-)

Raccolgo brevemente una questione lasciata ahimè aperta mesi or sono. Brevemente perchè ormai è passato tanto tempo e perchè dopo alcuni ragionamenti con i miei "colleghi" ho deciso di esser più presente sul forum, con interventi più coincisi... per questo taglierò su preamboli, passaggi e focalizzerò solo alcuni nodi a mio avviso particolarmente significativi rimandando gli approfondimenti alle discussioni che eventualmente seguiranno.
Il mio, insomma, non sarà una lezione sulla psicoanalisi in genere, ma un intervento di taglio epistemologico.
Innanzitutto, va ricordato come la disciplina sia nata avendo come modello le scienze naturali. Ora, se è innegabile un certo peso, nella formazione di Freud, di alcuni esperimenti del neurologo Charcot - cosa che agli occhi nostri potrebbe metterne in dubbio l'intento scientifico - va detto che l'intenzione del fondatore della psicoanalisi, che aveva ben chiari i principi della fisiologia, era riuscire a fondare una nuova disciplina della mente con un forte approccio "medico".
Fin qua, appunto, le intenzioni. Che non bastarono ai detrattori per discolparlo dell'accusa di "filosofeggiare" e basta. Come si poteva pretendere di studiare scientificamente un qualcosa che non si può vedere, toccare con mano? Sottoporre a osservazioni inequivocabili, per esempio in laboratorio? E che dire del punto di vista dell'osservatore?
Solo dopo la seconda guerra mondiale queste critiche hanno perso valore. Non si poteva più sostenere che l'irriproducibilità di un oggetto di studio ne impedisse l'indagine scientifica quando proprio una delle scienze esatte per antonomasia, la fisica, aveva da poco dovuto "negoziare" tale assunto. A mio avviso, ben prima (diciamo qualche migliaio di anni), con lo studio del moto dei pianeti l'umanità aveva dimostrato che la limitatezza dei mezzi non poteva limitare del tutto il lavoro degli scienziati - anche se all'epoca (ad esempio presso i Maya) gli studiosi non venivano definiti tali. Ma che quegli antichi studiosi avessero davvero ragione possiamo dirlo con certezza soltanto ora!
Il punto quindi è: come studiare scientificamente la mente, invisibile e intangibile, dell'uomo? O forse, dovremmo chiederci, come è possibile studiarla nel modo più scientifico possibile, in rapporto alle conoscenze e ai mezzi che disponiamo nel nostro tempo?
Questa è stata a mio avviso la genialità di Freud. Non ha senso criticarlo oggi per quello che, ai nostri occhi, egli sbagliò allora. Il bilancio tra mezzi a disposizione nelle diverse epoche e intenti perseguiti continua infatti a sembrarmi attivo.
Tra i suoi continuatori, alcuni non furono all'altezza di questa - lo ammetto, spesso frustrante - impresa. Sono quelli che si definiscono filosofi. Altri hanno recuperato la mission del maestro, cercando di affinare la tecnica e individuare strumenti di verifica del proprio operato alternativi - per ovvie ragioni - alle simulazioni con i volontari o altri tipi di esperimenti in laboratorio.
Se un domani esisterà una macchina capace di recuperare nitidamente le immagini memorizzate dal cervello, le sensazioni, i pensieri precisi, "trascriverli" in un continuum storico e risalire, in un processo di circolarità tra medico della mente e paziente, agli eventi traumatici o anche solo alla costruzione dei significati dal punto di vista del soggetto osservato, gli psicanalisti perderanno probabilmente la loro ragion d'essere. Ma fino a quel momento, continuerò a pensare che la psicanalisi, che comunque non pregiudica sinergie con altre discipline* al fine di meglio svolgere il proprio lavoro, lrimarrà un'insostituibile approccio, oltretutto poco invasivo, con cui lavorare sull'unicità psicologica di ogni essere umano.

* Un interessante esempio è il testo Neuropsicanalisi di Mark Solms.

martedì 28 aprile 2009

AI e il test di Turing

Non dubito che chi legge conosca il test di Turing; parafrasandolo un po' ingenuamente, esso afferma

Se una macchina è in grado di ingannare l'uomo durante una conversazione, facendogli credere di essere un uomo e non una macchina, allora tale macchina è per definizione intelligente


Per essere più precisi, Alan Turing propose il seguente test per stabilire se una macchina è da considerarsi intelligente: un esaminatore discute con un uomo e una macchina via tastiera; egli pone le domande all'uomo e alla macchina, tentando di distinguere l'uno dall'altra. Se non ci riesce (ovviamente c'è bisogno di più esaminatori, in maniera tale che il risultato sia statisticamente sensato) allora la macchina è dichiarata intelligente.

Sembra una cosa fantascientifica, ed è vero che il test che è usato in Blade Runner per identificare i replicanti sembra una versione modificata del test di Turing.

Eppure, si è più vicini alla sua soluzione di quanto molti non possano pensare: da qualche anno esiste il Premio Loebner che premia il programma per computer in grado di sostenere una conversazione più umana possibile.

L'anno scorso ha vinto Elbot, che è basato su un'idea che io trovo divertente: non cerca di imitare come converserebbe un umano; piuttosto sviluppa un suo stile basato sull'essere un computer.

Provare per credere!

venerdì 24 aprile 2009

La societá dell'immagine

Tempo fa ho seguito un simposio, e uno dei relatori era canadese. Questi, iniziata la sua presentazione, dopo due minuti tira fuori dei fimati realizzati al computer con delle simulazioni tutte colorate di neuroni che scaricano potenziali d'azione, ed eccolo zoommare qua e là, mostrare un trasportatore cellulare forgiato come una ruota che gira (velocitá variabile a seconda dei farmaci somministrati al neurone!), oppure un recettore con simpatiche buche in cui si infila il neurotrasmettitore. Roba da Superquark.
In quel momento ho dovuto dar ragione al mio amico Lap(l)aciano e al suo odio per la pubblicitá scientifica.
Infatti sono certo che se fossi stato a occhi chiusi avrei capito molto di piú di quel seminario. Le animazioni catturavano troppa attenzione!

La nostra coscienza non ha molto spazio. Le cose a cui possiamo prestare attenzione in maniera cosciente sono poche. Nel caso del seminario, era per me - come per molti in platea - impossibile seguire il relatore con tutto questo "rumore" sensoriale. Tecniche del genere sono proficue se il discorso è fatto lentamente e in modo divulgativo, e lo scopo è interessare e motivare la platea. Superquark, appunto. O una lezione di liceo. Ma non un seminario per i dottorandi. Noi vogliamo ipotesi, dati e discussioni. E li vogliamo senza che ci si nasconda dietro ai cartoni animati!!

martedì 7 aprile 2009

Cosa fa esattamente lo psicoterapeuta?

Se qualcuno ha una risposta a questa domanda, sarei lieto di leggerla.

Per quanto ne posso capire io, uno psicoterapeuta è un esperto che tramite tecniche sociali - comunicazione verbale e non - indirizza l'assistito verso un cambiamento comportamentale. Molto interessante e dibattuto il meccanismo neuronale attraverso il quale la psicoterapia agisce: mi accontento di pensare che le situazioni sociali che si creano con il terapeuta agiscano sulla plasticità neuronale inducendo lo sviluppo o la regressione di connessioni nervose. Come fanno tutti gli eventi della nostra vita. La presenza di una intenzione dietro questa azione dovrebbe far sì che si ottenga un effetto netto di cambiamento. In altre parole, l'ambiente intorno a noi ci scolpisce come rocce in preda all'erosione, ma uno psicologo, che ha la precisa intenzione di cambiarci in un senso, agisce su questa roccia come uno scultore. Giusto?

Ne dubito.

Nella vita si incontrano molte persone che assumono nei nostri confronti interazioni sociali differenti. A volte alcune di esse hanno intenzioni precise nei nostri riguardi. Vorrebbero che avessimo maggiore iniziativa, che fossimo più miti, o più generosi. A volte sono anche esperti di interazioni sociali, possono essere allenatori sportivi, insegnanti, sacerdoti. Abbiamo mille occasioni di stabilire un'interazione sociale volta al nostro cambiamento. Ma in molte occasioni lo rifiutiamo diradando la frequentazione con le persone che - ci lamentiamo - "non ci accettano".

Lo psicoterapeuta non è proprio una persona che non ci accetta? Se ci accettasse per come siamo, non avrebbe alcun effetto. Anche se non "giudica", egli interviene quando noi stessi non ci accettiamo più. Siamo noi a recarci da lui/lei e pagarlo perchè non ci accetti. Lo facciamo perchè è un esperto e noi gli tributiamo fiducia.
In altri termini, il suo potere viene in larga parte dal ruolo che noi gli attribuiamo. La tecnica c'è (ce ne sono anche troppe), ma è lì la chiave?

Siamo animali sociali, e il ruolo di una persona nella società è fondamentale. Se io mi accordassi con un caro amico affinchè mi faccia da personal trainer dovrei accettare che questi assuma il suo ruolo in pieno e mi rimproveri quando mangio schifezze e non faccio gli esercizi. Questa è una cosa che ai nostri amici non permettiamo, ma la permettiamo a un semi-sconosciuto. Comincio a pensare che sia lo stesso con lo psicologo. Da un lato c'è "l'expert power", un fattore che ha su di noi lo stesso effetto del testimonial nella pubblicità: ci si fida di quello che dice perchè è un esperto. Eppure quello che dice spesso non è altro che quello che altri ci hanno detto, ma non ci avevamo fatto caso. Perchè egli ha qualcosa di speciale? Io credo che la ragione sia piuttosto che in quel momento della nostra vita cerchiamo quel cambiamento, e siamo semplicemente più ricettivi.

Allora? Ha la psicoterapia una qualche utilità, oppure, come io propongo, ciò che conta è la disponibilità del soggetto a mettersi in discussione? Se quest'ultima proposizione fosse vera, allora dovremmo constatare che dove c'è lo psicologo, ma manca la volontà personale, manca anche il miglioramento. E questo è vero.
Resta da dimostrare che il cambiamento è possibile grazie alla sola volontà personale, sfruttando le occasioni che abbiamo sempre, piuttosto che rivolgerci al terapeuta. Credo anche questo sia possibile.

Naturalmente questo può essere più difficile per alcune persone che per altre. E qui entra in gioco l'esperto. Ma allorami chiedo: piuttosto che fare pubblicità alla psicoterapia, perchè non insegnamo a scuola l'arte di cambiare sè stessi sfruttando gli stimoli ambientali? Perchè non insegnamo agli studenti a studiare sfruttando le conoscenze che abbiamo del cervello? Perchè ci affanniamo a imparare molte cose - cosa che sanno fare anche gli animali - invece che imparare ad apprendere??

martedì 31 marzo 2009

Implicazioni e simmetrie

Ogni esercitatore di Analisi I lo sa: gli studenti confonderanno sempre implicazioni ed equivalenza. Se ogni successione convergente è limitata, ci vorranno settimane e settimane per fargli afferrare il fatto che esistono successioni limitate non convergenti.

Non è solo il caso degli studenti di Analisi I: in generale gli esseri umani tendono a confondere implicazioni ed equivalenze in ogni campo. Si veda questo interessante posto di Bressanini.

Se gli uomini non ci riescono, figuriamoci le scimmie! Niente di più sbagliato: le scimmie possono essere addestrate a risolvere problemi di implicazione e sono in grado di tenere questo problema ben distinto da quello della equivalenza.

Questa ed altre cose le ho imparate in una conferenza eccezionale di Iriki, ospite alla conferenza della società tedesca di neuroscienze.

Iriki ha parlato principalmente dei suoi risultati di questo articolo, in cui tenta di individuare nei macachi giapponesi le strutture cognitive che hanno portato l'uomo a sviluppare autocoscienza e a conquistare il cosmo.

mercoledì 18 marzo 2009

Apprendimento e memoria I : Tecniche 2. Mappe mentali

Cos'è una mappa mentale? Giusto per avere un'impressione visiva, ecco un esempio.
Ho provato vari metodi di studio: lettura ripetuta, ripetizione ad alta voce, riassunti, schemi lineari, mappe mentali. Nessun dubbio: le mappe mentali sono il più efficace.

In una mappa mentale si disegna al centro il concetto chiave. Intorno ad esso quelli che sono un gradino gerarchico più in basso, in termini di importanza. Piú ci si allontana, più si va nel dettaglio. La mappa deve essere colorata, illustrata e avere un forte impatto visivo. Abbiamo già visto che questo agevola la memorizzazione sfruttando la memoria episodica.

Per costruire il discorso la mappa va letta in senso orario. Trattandosi di una figura complessa, per la memorizzazione si utilizza la tecnica discussa nel post Tecniche 1.

Perchè le mappe mentali sono così potenti? Tony Buzan afferma che il nostro cercello pernsa per mappe mentali. Un'affermazione forse non sostenuta da sufficienti dati, ma intrigante senza dubbio! Vediamo un po':

1. Noi possiamo tenere in mente pochi concetti alla volta, ma possiamo richiamarli in un flusso costante formando una serie di pensieri teoricamente infinita. Ergo non bisogna puntare al ricordare il più possibile - non abbiamo spazio! - ma a concatenare nel modo più efficace possibile i concetti. Ecco perchè a ogni "radiazione" della mappa si sconsiglia di disegnare più di 5-6 branche (guarda un po', numero inferiore al nostro buffer di memoria di lavoro, 6-8). Le mappe servono appunto a concatenare i concetti.

2. Lap(l)aciano sostiene che le mappe aiutano ancor più a comprendere la materia studiata che a memorizzarla. Ha ragione, e il motivo è che costringono lo studente a dare un ordine ai concetti, a raggrupparli e dividerli, insomma a padroneggiarli. Sono impegnative, richiedono sforzo. Che a lungo termine paga.

3. L'ippocampo, struttura centrale per la memoria, secondo alcune ipotesi si é sviluppato originariamente come strumento di navigazione. Se questo è valido per i topi, è vero anche anche che i tassisti di Londra hanno un ippocampo più sviluppato della norma. Ecco perchè organizzare i concetti spazialmente, piuttosto che con lunghi riassunti, aiuta tanto! Mentre la rilettura di un riassunto è sequenziale e di natura puramente verbale, la rilettura di una mappa mentale è una esplorazione spaziale nella quale si trovano anche stimoli verbali. E ripetendola si impara subito a "orientarsi"!

4. Le mappe mentali si prestano non solo allo studio, ma anche agli appunti e alla organizzazione mentale di relazioni, scalette, etc.

Ci sono anche svantaggi, ovvio. Le mappe mentali sono finalizzate a uno scopo: tenere a mente un gruppo di concetti. Quello che non entra nella mappa non ha chances di essere ricordato all'esame. Diversamente, leggendo e rileggendo da diverse fonti ed esaminando criticamente il materiale si guadagna una conoscenza un po' più enciclopedica che può aiutare qualndo all'esame vi chiedono un minuto dettaglio che non avete ritenuto opportuno ripetere. Questo le mappe mentali non ve lo danno. In cambio, guadagnate almeno il 20%-30% del tempo dedicato allo studio!

Concludendo: leggete questo libro e buon divertimento!

sabato 14 marzo 2009

Corteccia laminare

Giovedì scorso ha tenuto da noi un talk Onur Güntürkün, neuroscienziato cognitivo di Bochum. Il titolo del talk era Knowing Yourself - and Other Stories on the Parallel Evolution of Comparable Minds.

Prima una premessa: la corteccia cerebrale è la parte esterna del cervello, che, nei mammiferi, è responsabile delle funzioni superiori cognitive. Questo tessuto ha una struttura laminare: è come se fosse costituita da 6 tappeti di neuroni messi uno sull'altro. È caratteristica precipua dei mammiferi.

Continuo dicendo che il talk è stato veramente interessante, e che l'oratore è evidentemente un grande scienziato. L'idea centrale da lui esposta è la seguente ed è facile da comprendere: molti affermano che la neocorteccia laminare come l'abbiamo noi mammiferi sia necessaria per funzioni cognitive superiori. Alcuni uccelli hanno capacità cognitive paragonabili a quelle dei primati, ma non hanno la neocorteccia laminare. Ergo la neocorteccia laminare non è necessaria.

(In questo post tento di non considerare gli uomini, che sono evidentemente un caso a parte).

Nella conferenza ha anche tentato di esaminare quali potrebbero essere i meccanismi che sono veramente importanti, ma non è questo di cui voglio parlare.

Ha anche notato che una certa lucertola di cui non ricordo il nome, è che un "fossile vivente", il cui genoma risale approssimativemente al tempo della biforcazione fra mammiferi e rettili, ha una corteccia laminare. Sembra dunque che la corteccia laminare sia una struttura più antica, abbandonata da rettili e uccelli, ma utilizzata dai mammiferi.

Due altre osservazioni: per quanto si dica che le dimensioni del cervello non sono importanti, beh, non è del tutto vero. Se disegnate su di una scala logaritmica il peso del cervello di vari animali come funzione del peso dell'animale, scoprirete che animali simili si trovano su linee rette molto precise. Una per i rettili, una più in alto per i mammiferi, una più in alto per i primati ed una alla stessa altezza per gli uccelli.

La seconda osservazione: a parità di rapporto peso cervello/peso corporeo, in genere cervelli più grossi sono meglio: noi siamo più intelligenti degli scimpanzè che sono più intelligenti dei macachi, ad esempio (è un po' qualitativo, pensate al gorilla, che è solo un po' sotto scimpanzè e orang-utan). Sembra, insomma, che esista una quantità minima di cervello necessaria per alcune funzioni.

Dopo il talk, a cena, ho chiesto al professore: "non potrebbese essere che la corteccia laminare è in realtà uno svantaggio cognitivo? Guardi i corvi, a parità di rapporto peso cervello/peso corporeo, riescono a fare le stesse cose pesando di meno". Mi ha guardato scettico e mi ha detto: "Tutto può essere".