venerdì 2 luglio 2010

Stitichezza mentale

A volte cerchiamo delle cose e ne scopriamo altre decisamente più curiose. Stavo spulciando libri e siti per verificare alcuni dubbi in materia di disturbi psicosomatici quando incappo casualmente nella voce stipsi. Ma dai!, dico tra me e me, e inizio a leggere...
Dunque, la "metafora" a cui l'inconscio ricorre per esprimere, anzi, segnalare un malessere interiore ruota intorno al trattenimento agito dall'intestino. L'interpretazione sembra duplice: in un caso la stipsi cronica simboleggia avarizia (trattenimento esagerato per sè), nell'altro timore di perdere qualcosa o qualcuno a cui si tiene molto (ansia, appunto, di trattenerlo).
Particolarmente interessante è la conclusione Groddeckiana di vedere nella stitichezza "mentalmente indotta" un'atto di ostinatezza (cfr. in proposito questo post). Altri studi ritornano sul rapporto originario tra defecazione e senso di "successo", coprofilia (per approfondire questo termine leggete la voce "coprofilia e coprofagia" di questo articolo) poi inibita durante l'educazione (che trasforma l'evacuazione in un atto aggressivo e sporco). E' a questo punto che nasce l'associazione tra feci e pulsioni negative: l'intestino sembra al contempo respingerle e catalizzarle su di sè, ed è frequente che coloro che sono particolarmente pessimisti, amareggiati e depressi soffrano di una qualche forma di stitichezza cronica.
Riassumendo: come gli antichi aruspici anche noi dobbiamo esercitarci nella lettura di un mondo interiore (mai aggettivo fu più azzeccato): il nostro.
Ricordiamocelo prima di tirare lo sciacquone :D


[il commento "che post di m***a" non vale!]

sabato 8 maggio 2010

Repetita: iuvant?


Nelle sue multiformi evoluzioni il linguaggio umano ha raggiunto forme sempre più complesse, consentendo, a chi sa utilizzarlo con appropriatezza, di esprimersi nella maniera più precisa possibile. Ci sono, è vero, delle differenze culturali: per alcune culture ad esempio non ci sono parole che indichino il colore verde. A noi può sembrare assurdo, per loro che magari vivono continuamente immersi nella natura il verde è un dato scontato.
Però, escludendo queste mancate corrispondenze, troviamo, entro ogni linguaggio e ogni cultura, almeno alcune parole a cui corrisponde inequivocabilmente un significato, concreto o astratto che sia: qualcosa di fortemente autoesplicativo, che non necessita ulteriore spiegazione. E una serie di altri termini che, seppure fraintendibili, collocati in determinati contesti lo sono decisamente meno. Ovviamente un discorso analogo potrebbe essere fatto anche per i gesti, per i simboli, e per tutto ciò che è comunicazione.
Ecco allora il quesito che mi affascina: cosa ci porta, nonostante questa specializzazione del linguaggio (cui dovrebbe corrispondere una maggiore efficienza qualitativa, in termini di comprensione, e quantitativa, in termini di tempo necessario a comprendere) a ripetere?

Vediamo ad esempio questa poesia di Corrado Govoni, Piccole cose:

Da ogni parte le campagne
suonano il mezzogiorno,
come morbide
zane
che vogliano
cullare il giorno.
Nella cucina il vecchio
pendolo
scatta. Il micio è andato
fuori.
Giù, nella via, un
fruttivendolo
grida "bei pomi, cavoli
fiori!"
Il moro del caminetto
ascolta la sua trottola di gesso.
Mia madre sta facendo il letto.
Io mi sono alzato adesso.
Ed è sabato, la vigilia
di Domenica. I
raggi del sole sbiadiscono.
Il calenda
rio nota la vigilia.
Passa un bi
roccio. I vetri abbrividiscono.

C'è una prima forma di ripetizione, esplicita, costituita dal sistema di alliterazioni "a catena interna " tra versi contigui (ne ho evidenziate col grasseto nero, a titolo esplicativo, soltanto due, distanti tra loro e quindi meglio evidenziabili: la f nella prima metà della poesia e la r degli ultimi tre versi). Il perchè di questa scelta, anticipata già dal titolo, è in chiara sintonia col crepuscolarismo dell'autore: porre l'accento sulle "insignificanti", piccole cose, corrispondenti appunto a parole diverse con posizioni simili all'interno dei versi.
C'è però anche un'altra forma di ripetizione, meno evidente: ricostruiamola guardando le parole evidenziate in grasseto rosso.
La relazione tra "zane" e "cullare" è chiara: si evita la cacofonia (in questo caso, la ripetizione di "culla" e "cullare" che, confermando le mie aspettative di inizio post, risulterebbe appunto eccessiva, fuori posto), rinforzando l'attenzione su un oggetto e una situazione decisamente comune... e ci ritorna su una terza volta con il "pendolo". Perché? Perché il richiamo qui non è il suono, non è la sinonimia, ma è l'idea di un movimento: si enfatizzano oggetti di uso comune ripetendone l'idea di movimento, e cioè il dondolio della culla e del pendolo (e chissà che nella mente del poeta non si sia raffigurata anche un'assonanza tra "dondolo" - implicito nell'idea appunto del dondolio - e "pendolo". A me è venuta subito in mente).
Una ripetizione, anche in quest'ultimo caso, che enfatizza e rinforza. Una scelta comunicativa, in sostanza, che nel contesto - in questo caso - poetico amplifica le possibilità espressive del linguaggio di uso comune.
Pensiamo ora invece ad un'altro frutto dell'umano intelletto, e cioè il Bolero di Ravel. In questo caso la continua ripetizione dei due temi che lo compongono è sicuramente da ricondurre alla situazione ipnotica che l'autore intende ricostruire (si veda per esempio questa interessante interpretazione e questa nota sul linguaggio musicale), ipnosi di matrice erotica se pensiamo che originariamente il balletto per cui il Bolero era stato composto prevedeva come fulcro della situazione una seducente figura femminile intenta a danzare su un tavolo mentre gli altri protagonisti della scena (uomini) si stringono progressivamente, sempre più ammaliati, intorno a lei. In questo caso, tuttavia, le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle musicali perché, a ben vedere, il compositore soffriva di quel male che solo più tardi sarebbe stato diagnosticato come morbo di Alzheimer.
Acquisisce allora, date queste premesse, una nuova sfumatura la ridondanza sonora così come nasce nella mente di Ravel, prima ancora di come viene eseguita in pubblico: un anticipo della ripetitività, e della sostanziale staticità, del suo pensiero o, detto altrimenti, un'anticipo "creativo" dei drammatici disturbi cognitivi a cui andrà incontro. Ripetitività, in sostanza, come imago mortis.
Può far strano ricondurre qualcosa che prima facie richiama il movimento - a maggior ragione se una musica composta per un balletto - a una quasi pulsione di morte. Eppure come considerare una ripetitività rivelatasi fine a sé stessa, se non come un finto dinamismo, finto almeno quanto il dinamismo meramente meccanico di una marionetta (in quel caso la morte non come fine di un processo ma come semplice assenza di vita è evidentemente presente)?
Anche nel nostro immaginario collettivo (incluso quello di derivazione letteraria) la marionetta, figura che ripete i movimenti di esseri umani vivi, veri, richiama alla mente - che sotto sotto non si inganna! - assieme all'idea del piccolo prodigio, un non so che di strano, innaturale. Esattamente come avviene per la larva di petroniana memoria: un non morto che può ripetere (anche all'infinito) le stesse azioni dei viventi, esorcizzando così la paura della morte.
O, ancora, Baudelaire, tanto per ritornare nell'ambito poetico, richiama l'idea della morte attraverso l'immagine dei fili che trattengono il corpo della "ripetente" per antonomasia, la marionetta: Plus encore que la Vie, La Mort nous tient souvent par des liens subtils.
Nessuna rivelazione straordinaria, per la verità: un qualunque corpo vivo non avrebbe bisogno di ripetere la vita altrui, potrebbe agirne una originale, creata da sé.
Eppure, quante situazioni non create ad artificio ci fanno vivere un anticipo di morte proprio attraverso la ripetizione? Pensiamo agli spasmi dell'epilessia: una ripetizione veloce dello stesso gesto, oggi spiegabile come un disturbo neurologico, ma in passato decisamente imperscrutabile. Ancora una volta: eccessiva, innaturale. Gli antichi risolsero la questione trascendendo l'incomprensibile, e così presso molte culture l'epilessia diventò il Male Sacro.
Il punto non è arrivare ad una lettura che sia solo razionale o solo irrazionale della questione della ripetitività. Il "nostro" (contemporaneo, occidentale) malato di demenza, ad esempio, quando pone domande ripetitive deve superare in realtà sia un problema mnemonico che di gestione dell'ansia, che a sua volta è per definizione "paura della perdita del controllo": la classica sensazione dell'essere "in bilico",o di non percepire più il confine (ad esempio tra l'essere-sentirsi vivi e tra l'essere-sentirsi morti), che è, in ultima istanza, anche un problema metafisico.
Anche in questo caso c'è un'evidenza lapalissiana: la morte è davvero ineluttabile solo per chi è vivo! Da questo punto di vista l'ansia di morire, e la gestione della stessa attraverso la ripetitività, sono un buon segno: del fatto che siamo vivi, ad esempio.
Ma neanche questo ci rassicura. Forse perché nella ripetizione c'è, per dirla con Freud, anzi forse un po' meglio con Jentsch, qualcosa di perturbante. Almeno finché la nostra mente non viene ingannata molto, molto bene (si vedano a tal proposito gli studi sulla c.d. zona perturbante o uncanny valley).
In sostanza, laddove non c'è una premeditata intenzione di ripetere qualcosa per ottenere qualcos'altro attraverso l'artificio stesso, la nostra mente (il nostro istinto di sopravvivenza? la nostra tensione all'immortalità? il bisogno di fare ordine nel reale con una visione in bianco e nero?) ci pone un aut aut: autentico contro imitazione, repetita versus unicum. E non solo nella lettura del reale, ma anche nella consapevole gestione della nostra vita, nel nostro confermarci, in quanto perituri, primariamente vivi. Con le parole di Simmel: "solo ciò che è unico e irripetibile può propriamente morire".

mercoledì 14 aprile 2010

...ergo sum

Se un albero cade nella foresta, ma nessuno si trova lì intorno a sentirlo, emette un suono?
George Berkeley

Vorrei tornare su un argomento toccato in questo post. Premetto che ha poco a che fare con le neuroscienze, si tratta di una speculazione in un campo nel quale sono profano.

Si discuteva della consapevolezza di , la cui definizione forse banale non é; nella discussione di allora se ne parlava come della capacità di una persona di sottoporre alla propria attenzione espressioni della propria interiorità e del proprio comportamento. Maggiore la consapevolezza di sè, maggiore la quantità di informazione su se stessi accessibile esplicitamente, laddove "esplicito" va inteso in analogia con l'apprendimento implicito/esplicito: il criterio sarebbe così la capacità di verbalizzare l'informazione posseduta.

Si diceva nel post che ci sono modi individuali di ampliare la propria consapevolezza di ; per un raffronto si può leggere questo blog. Infine si dibatteva se questa qualità sia un mezzo o un fine.
In questo post vorrei argomentare che:

1. la manipolazione cosciente del comportamento presenta vantaggi e svantaggi, e non sembra costituire il fine ultimo dell'apprendimento;
2. le azioni umane non sembrano motivate da un'esigenza di maggior consapevolezza, e una maggior consapevolezza non pare rispondere alle domande essenziali a cui il comportamento umano (inclusa la ricerca della consapevolezza di sè) fornisce una risposta.

Col primo punto mi riferisco al fatto che il trovarci ad analizzare coscientemente dati avviene nostro malgrado, è insomma un sottoprodotto del fine che vogliamo conseguire. Quando ad esempio abbiamo imparato a guidare, abbiamo attraversato una fase nella quale ogni nostra azione era controllata attentamente. In realtà non potremmo guidare, se dovessimo pensare a ogni movimento! Saremmo troppo lenti, perché la coscienza ha una capacità troppo ridotta.
Lo stesso discorso vale per altri esempi di apprendimento procedurale. La competenza è tale proprio perché non richiede la mediazione dell'attenzione. Applicare questo discorso all'apprendimento concettuale può sembrare inappropriato, ma proviamoci. Pensiamo al linguaggio. Pensiamo alle associazioni "overlearned", cioè ultra-apprese, as esempio tra il volto e il nome dei nostri cari. Questo è un esempio di memoria esplicita, eppure con l'andare del tempo diviene implicita, e non richiede più la nostra attenzione (osserviamo per inciso che questo potrebbe dipendere dal consolidamento dell'informazione, inizialmente codificata dall'ippocampo, nella corteccia cerebrale).

Una volta discorrevo di Leopardi, e il mio interlocutore mi ha detto:"Secondo te quando tempo ci ha messo Leopardi a scrivere questi capolavori? Mesi? Anni? No. Li ha buttati giù così, perché talmente era intriso di cultura classica che gli veniva naturale."
Ecco, la competenza a cui aspiriamo è questa. E credo sia così anche per le cose della vita: desideriamo comportarci in modo diverso, ma fluidamente, senza sforzo.
La consapevolezza è uno strumento utilissimo, necessario ogniqualvolta dobbiamo adattare il nostro comportamento. Se, per esempio, ci recassimo in Gran Bretagna, sarebbe terribilmente pericoloso attraversare la strada affidandoci all'esperienza maturata altrove!

Dunque la consapevolezza di sè serve quando vogliamo adattarci. Viviamo in un ambiente complesso, in cui questa esigenza si manifesta spesso; quindi effettivamente una maggior consapevolezza potrebbe risultare vantaggiosa.
Ma esiste poi questa quantità? Esistono dei gradi che uno può conquistare? Una volta conquistato un grado si può tornare indietro? In accordo con l'idea che si tratti di uno strumento di adattamento, è plausibile pensare che serva più nel momento in cui le condizioni cambiano, rispetto a quando restano stabili. E poi, se la fase di adattamento nasce come transitoria, ci si potrebbe chiedere: ma davvero noi ci vogliamo adattare? Qual è la pressione che ci induce a compiere questo sforzo? Forse il dolore, o l'ambizione?

Se uno osserva la storia umana, forse è più propenso ad affermare che l'uomo cerca di adattare l'ambiente alle proprie esigenze. Diciamocielo francamente: con tutta la nostra autoconsapevolezza, cambiare il nostro comportamento - o addirittura la nostra personalità - è una fatica bestiale. Mica è detto che sia la soluzione migliore, peraltro. Potremmo cercare di mantenerci nella nostra "nicchia ecologica" e dedicare attenzione ad altre cose, che non siano il miglioramento di noi stessi. Potremmo anche solo goderci la vita. Che motivazione abbiamo per fare altrimenti?

Ecco, secondo me le azioni che noi compiamo rispondono a dei bisogni. Alcuni sono basilari. Ma la nostra vita non si esaurisce a questi: se così fosse faremmo come i leoni, che riposano circa 20 ore al giorno.
Io trovo che la domanda fondamentale a cui cerchiamo risposta se la sia fatta Cartesio. La domanda è: come faccio a sapere che esisto?
Uno potrebbe pensare che una simile domanda astratta richieda già un certo talento concettuale. Non è così, perché si può domandarselo implicitamente. La cosa è chiarissima in contesto sociale: ciascuno è alla ricerca di indizi che testimonino la considerazione che di lui/lei gli altri hanno. Cosa pensa "x" di me? Quanto valgo? È appropriato che mi comporti in un certo modo? Le percezioni sono poco potenti nell'assicurarci che esistiamo: non ci basta guardarci intorno e così constatare la funzionalità del nostro sistema visivo. Noi cerchiamo effetti, cerchiamo tracce del nostro impatto nel mondo. Vogliamo essere riconosciuti (si leggano "Le notti bianche" citate nel post precedente). Quando uno grida ed esercita violenza, cerca di ottenere un impatto che altrimenti non sarebbe alla sua portata. Quando uno lavora e riceve stima, denaro, o un manufatto, trova la rassicurazione che egli esiste. Quando uno guarda i suoi figli, trova in essi la certezza: "Da me si è originato questo essere vivente". Quando facciamo shopping sfrenato, quando divoriamo la cena, non diventano forse questi beni di consumo testimonianza del nostro impatto?
E la morte che ci spaventa tanto, non è forse il momento in cui cessiamo di esistere?

Da bravo nerd, la risposta individuale di Cartesio, paladino tipo della consapevolezza di sè, è: cogito, ergo sum. Il dubbio sostanzia l'uomo. Ma questa è la risposta di Cartesio. Se uno si guarda intorno, vedrà gente che lavora 12 ore al giorno, gente che si impegna a far quattrini, gente affaccendata in relazioni sociali, gente che vuole andare in tv. Tutte risposte a questa istanza primaria: esistere, avere un impatto, essere visti, riconosciuti. Ago, ergo sum. Cartesio era un pensatore, e perciò la sua azione si è dipanata tramite la manipolazione del pensiero. È un caso notevole, perché non produce un feedback sensibile (es. un sorriso amico o un oggetto di artigianato). È simile in questo alla religione.
In tutti i casi, incluso quello religioso, non sembra si sia in grado di convincersi definitivamente, irreparabilmente, della propria esistenza e individualità. Nel caso del religioso, è l'esistenza di Dio che mi sostanzia, e le azioni che compio hanno impatto nella Storia della Salvezza. Un cardine della religione sta proprio nella possibilità di agire sugli dèi, circostanza particolarmente evidente nei culti più antichi. In chiave cattolica si potrebbe persino leggere il peccato originale sotto questa luce: Adamo ed Eva si sostanziano con un'azione trasgressiva. "Non morirete affatto, anzi diventerete come Dio" - il cui nome, "Io sono", rimanda esplicitamente al tema dell'esistenza.

In tutto questo, la consapevolezza non è una risposta. La più alta consapevolezza di sè non sembra capace di spegnere questo dubbio. L'elaborazione cosciente è il mezzo di cui tutti ci serviamo per ottenere, in modo adattabile ed efficiente, il palliativo a noi più adeguato - il lavoro, il denaro, la socialità, l'apostolato ecc. La consapevolezza di sè è importante per capire quale sia il palliativo a noi più adatto (e per fare un mucchio di altre scelte pratiche!).
Ma la pietra filosofale qui è la scoperta che esistiamo sul serio, senza bisogno di alcuna conferma. Tutto ciò che non fa questo assume valore di mera conferma, perché la domanda "Chi sono io?" (consapevolezza di sè) viene dopo la domanda ancor piú fondamentale: "Sono io?".

Per questo affermo che il mito della consapevolezza di sè è un'altra foglia di fico posta dinanzi alla nudità umana, e per questo ritengo che non sia da innalzarsi a fine, nè sia una cosa in sè buona, più di quanto lo siano la capacità di coordinare i propri moviementi o di distinguere sottili differenze sonore.

lunedì 22 marzo 2010

Questa è pubblicità

Questo post è assolutamente atipico per questo blog.
Nasce da coincidenze e dal desiderio di un amico che mi ha chiesto di "scrivere qualcosa", e probabilmente non vi sembrerà riguardare affatto la psicologia. Errore. Ne riparleremo.
Ha la sua radice nelle discussioni sul desiderio mio e di due miei amici.
Vi propone uno sguardo su un esempio di ciò che per eccellenza si propone di far nascere in noi desideri: una pubblicità. Incredibilmente, è una pubblicità che per una volta ritengo proprio bella:



...e se ora come spero desiderate almeno leggere il libro "Le notti bianche" di F. Dostoevskij cliccate pure qui. A presto

martedì 2 marzo 2010

Reinforcement learning, parte terza: la novità

Al già citato convegno in Turchia era presente anche Emrah Duzel, scienziato emergente di origine turca, cresciuto in Germania; al momento lavora a Londra. Il suo lavoro è molto interessante: avendo considerato che nell'ippocampo, regione ritenuta il motore primo della memoria episodica, giungono impulsi dopaminergici, si é messo a studiare gli effetti della ricompensa sulla memoria episodica. Cerca, insomma, di mischiare campi che i luminari hanno cercato disperatamente di separare!

Una delle teorie a cui lavora ultimamente è che la novità sia, per gli esseri umani, una ricompensa in sè stessa. Pertanto, essere esposti alla novità prima dell'apprendimento dovrebbe rinforzare l'apprendimento. Ebbene, egli è riuscito a dimostrarlo. Esponendo i suoi soggetti a immagini di luoghi esotici, e successivamente testandone la memoria utilizzando tutt'altri stimoli, ha verificato che i soggetti esposti alla novità ottenevano performance più alte. Il tutto in contemporanea con una attivazione significativa nelle aree responsabili della ricompensa.

Il lavoro di Duzel è bello perchè non é costruito per tentativi, ma deriva da uno studio profondo della neuroanatomia e della neurobiologia, a partire dal quale egli ha formulato le sue ipotesi ed ha avuto successo. Egli raccomanda quindi ai suoi studenti di osservare immagini bizzare per 5 minuti prima di studiare, così da attivare l'ippocampo. Vi hanno detto: "Prima il dovere, poi il piacere?" Ebbene, un altro dogma da sfatare!
I buoni insegnanti hanno sempre saputo che é necessario per prima cosa incuriosire gli studenti!

domenica 14 febbraio 2010

Comprensione di sé (o meglio "Ostacoli alla...")

"...
C'è una cosa che gli Aa sembrano omettere di menzionare quando sei nuovo e completamente fuori di testa dalla disperazione e pronto a eliminare per sempre la tua mappa e ti tocca sentirti dire che le cose andranno sempre meglio se continuerai ad astenerti e darai tempo al tuo corpo di riprendersi : omettono di dirti che il modo per migliorare e stare meglio passa attraverso il dolore. Non intorno al dolore o nonostante il dolore. Questa parte la lasciano fuori, e parlano invece di Gratitudine e di Liberazione dalla Compulsione. Invece si sente molto dolore a stare sobri, e di questo ti accorgi dopo, con il tempo. Poi, quando sei pulito e non desideri le Sostanze più di tanto e hai voglia sia di piangere sia di ridurre in poltiglia qualcuno, gli Aa di Boston cominciano a dirti che sei sulla strada giusta e faresti bene a ricordarti la sofferenza senza scopo di quando eri assuefatto, perché almeno questa sofferenza sobria adesso ha uno scopo. Ti dicono che perlomeno questa sofferenza significa che stai andando da qualche parte, invece di girare all'infinito nella ruota del topolino come quando eri assuefatto.
Tralasciano di dirti che dopo la magica sparizione del bisogno di farsi e sei o otto mesi di fila senza Sostanze, comincerai a «Entrare in Contatto» con il perché avevi cominciato a fare uso delle sostanze. Quando arrivi a questo punto, comincerai a capire come mai eri diventato dipendente da quello che, in fondo, non era che un anestetico. Viene fuori che «Entrare in Contatto con i Tuoi Sentimenti» è un'altra frase fatta che finisce per mascherare qualcosa di orribilmente profondo e reale*. Si scopre che tanto più è insipida la frase fatta degli Aa, tanto più affilati sono i canini della verità vera che nasconde.
...


*Un epigramma più astratto ma più vero che i veterani di sobrietà della Bandiera Bianca a volte preferiscono a questo è: «Non preoccuparti di entrare in contatto con i tuoi sentimenti, saranno loro a contattare te»."
(D.F. Wallace, "Infinite Jest")



Alessitimia
Letteralmente alessitimia sta per "mancanza di parole per le emozioni". I soggetti alessitimici presentano come centrali le seguenti caratteristiche:
"...
- difficoltà a discriminare un'emozione dall'altra, e gli stati somatici dalle emozioni; ...
- difficoltà a comunicare ad altri le proprie emozioni;
- presenza di processi immaginativi coartati, con scarsezza di vita fantasmatica ...;
- presenza di uno stile cognitivo legato allo stimolo, orientato all'esterno ...
..."
(L. Solano, "Tra mente e corpo")



Come sono in relazione tra loro queste due citazioni? Cosa c'entra un romanzo di fantasia con un costrutto psicologico nato nell'ambito dello studio delle patologie psicosomatiche? I collegamenti in realtà sono molteplici, e passano anche attraverso alcuni degli studi e delle teorie di Bion (in particolare quelli sul "pensiero senza pensatore"), nonchè attraverso la conoscenza delle basi di quanto ci è noto sulle emozioni. Ad ogni modo...

...come un po' tutti sappiamo, ogni giorno il nostro cervello si trova a dover conciliare le esigenze della realtà in cui viviamo (il mondo esterno), con quelle del nostro corpo e della nostra mente (il mondo interno). Un esempio: il nostro corpo reagisce a e sposta la nostra attenzione su quella bella ragazza formosa che sta passando proprio davanti a noi per strada; la nostra mente comincia a considerare il modo migliore di approcciarla (o ignorarla magari) tenendo conto delle nostre presenti o meno esperienze pregresse; la realtà esterna si materializza sotto forma di un grande orologio digitale sul palazzo di fronte che ci ricorda il ritardo di mezz'ora con cui ci stiamo dirigendo verso il luogo del nostro prossimo appuntamento.

Cosa succede a questo punto dentro di noi? come cambierebbe la nostra reazione se per esempio la ragazza avesse affianco a sé un affascinante ragazzo? o se noi ci fossimo appena lasciati con la nostra partner? o se la ragazza fosse una perfetta sconosciuta o magari invece una nostra "vecchia fiamma" da tempo persa di vista?

Non esistono risposte univoche a queste domande. A seconda della nostra personalità (vista in un'ottica biopsicosociale) dentro di noi ci potranno essere una molteplicità di reazioni diverse. Ciò che vorrei far rilevare è come nel caso preso per esempio un evento esterno si ripercuota in noi provocando non solo una serie di reazioni di tipo cognitivo (un susseguirsi di pensieri in forma di ragionamenti, o ricordi, o fantasie) ma anche una serie di cambiamenti di tipo fisiologico (ad es. un vago senso di eccitazione) ad un livello più profondo di quello semplicemente corticale. In un'emozione sono sempre implicati questi tre diversi livelli: quello degli eventi inerenti la realtà esterna, quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di cambiamenti fisiologici profondi, e infine quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di risposte ad un livello un po' più astratto, cioè di tipo cognitivo, mentale. Ora, è chiaro che qualunque evento interno di tipo cognitivo o "mentale" ha dei correlati fisiologici nel nostro cervello; quella che voglio qui evidenziare è però la presenza di una differenza tra una reazione più di tipo corticale o per quanto possibile limitata al sistema nervoso centrale, ed una di tipo più interno, non soltanto sottocorticale ma invece inerente tutto il corpo nel senso di modificazioni al sistema endocrino, all'apparato muscoloscheletrico, a quello vascolare, al piano delle risposte immunitarie, etc. (qui però mi serve davvero l'illuminazione delle neuroscienze per sapere quanto questa mia distinzione sia effettivamente fondata), una reazione tanto più presente quanto più la nostra emozione è forte e tra quelle "di base" (ad es. rabbia, paura, tristezza o gioia).

Crescendo, la maggior parte degli individui impara ad integrare i dati che giungono da questi tre diversi livelli in maniera praticamente automatica. Ancora, per eseguire l'integrazione di questi diversi dati si sviluppano tutta una serie di strategie che sono comuni rispetto ai diversi individui presi nel loro insieme ma presenti in una combinazione praticamente unica all'interno di ciascun singolo individuo. E qui attenzione, perché mentre la realtà esterna, l'apparato sensoriale che ci permette di reagire ad essa, e così pure le nostre reazioni emotive di livello profondo, più corporeo, hanno in noi una trama in gran parte già preformata, il nostro livello corticale di gestione degli input di questi due dati è alla nascita per molti versi una tabula rasa. Le invarianze tra i diversi individui che è possibile riscontrare nell'organizzazione a livello corticale ci indicano una nostra parte cognitiva filogeneticamente innata, ma praticamente dal momento della nascita se non prima tra tutte le innumerevoli possibilità di organizzazione cerebrale possibili viene effettuata una selezione continua, un ordinamento incessante che nel tempo porta ad un'organizzazione cerebrale unica per ciascun individuo, anche laddove si partiva da corredi genetici identici (è il caso dei gemelli omozigoti).

Questo processo di organizzazione è comune però a qualunque essere vivente, non solo all'uomo. Cos'è che rende l'organizzazione cerebrale dell'uomo allo stesso tempo così tremendamente complicata e così efficace, tale da permettergli di realizzare tutte le incredibili meraviglie che gli sono proprie? Io sostengo (ok, non senza illustri predecessori, spero ve ne verrà in mente qualcuno), che uno degli strumenti più importanti per l'uomo sia il linguaggio verbale. L'uomo ha sviluppato però una molteplicità di linguaggi, quali ad esempio linguaggi artistici di tipo figurativo o musicale, oppure linguaggi formalizzati quale quello matematico, o linguaggi multimodali quali quelli utilizzati nelle comunicazioni massmediatiche.
E' invece con il linguaggio verbale che cerchiamo nella maggior parte dei casi di ordinare nel modo migliore il gran caos informativo che risulta dalla molteplicità degli eventi quotidiani a cui siamo sottoposti.
Attenzione però: l'uso del linguaggio verbale non ci svela mai la totalità nè del mondo esterno nè del mondo interno. Il linguaggio è uno strumento, e in quanto tale oltre a pregi presenta anche difetti, limiti. Si possono cercare approfondimenti al riguardo negli studi di diversi filosofi, o nelle opere di diversi scrittori, o psicologi, o psicoanalisti (ne cito uno solo, Lacan). Un post di Laplaciano che ho molto apprezzato al riguardo è qui.

Ma cosa fa invece l'uomo quando un po' tutti i linguaggi a lui conosciuti falliscono, e rimane preda di sensazioni per lui almeno momentaneamente estranee e fonte spesso di disagio? Spesso, banalmente, consapevolmente o meno cerca sollievo dal caos o dalla forza di determinate sensazioni in "distrazioni" presso rifugi esterni meno o più validi di vario tipo: nell'uso di sostanze psicoattive, o nella fruizione continua delle più svariate forme di intrattenimento (film, giochi, videogiochi, l'ascolto passivo di una radio o di musica), o nell'assunzione di cibo, o nell'attività sessuale, o nei gesti più diversi ripetuti in maniera compulsiva, o in ordinamenti del caos già preformati quali fedi politiche o religiose o quant'altro, o all'interno di rapporti interpersonali di tipo familire, o amicale, o amoroso.

Tutti questi rifugi ci mettono costantemento al riparo dal o a volte per fortuna ci aiutano nel trovare una risposta alle domande implicite che il nostro caos informativo interno ci pone, o a volte invece direttamente ci prevengono dal far caso alla stessa esistenza di determinate domande.

Come si arriva invece alla comprensione di sé?
Sarebbe molto bello saperlo già, ma invece la strada per la scoperta di sé è estremamente personale e in parte anch'essa da scoprire. Diciamo che di sicuro richiede: un prendere atto di quelli che sono i nostri stati d'animo e le nostre senzazioni per come essi si manifestano nei nostri diversi atti creativi e non di tipo verbale, artistico, o relazionale, o quant'altro. Insomma, per come ce li suggeriamo noi stessi nei più diversi linguaggi. A volte però, prima ancora di poter cercare le risposte alle domande implicite nel nostro caos, dovremo cercare proprio le domande, che ci attendono pazientemente appena fuori i più impensabili rifugi. Indubbiamente, la nostra strada prima o poi dovrà attraversare il caos.

In bocca al lupo

sabato 30 gennaio 2010

Correlati neurali II: il tasso di scarica

Oggi vorrei entrare nei dettagli della discussione cominciata qui e spiegare qual'è il correlato neurale più semplice da esaminare: il tasso di scarica di un neurone o di un gruppo di essi.

Come sapete, i neuroni comunicano tra loro tramite potenziali d'azione, sarebbe a dire brevissime scariche lettere. È come se comunicassero tramite un codice Morse fatto solo di punti ma non di linee.

(Per essere precisi, questo è vero sicuramente per i neuroni corticali umani, mentre creature più semplici hanno spesso neuroni comunicanti in altre maniere, ma questo è un altro discorso)

Immaginiamo adesso di fare un esperimento che ci consenta di registrare questi impulsi durante un esperimento, ad esempio mentre mostrate ad un soggetto diverse immagini. Cosa possiamo fare per analizzare i dati a nostra disposizione? Possiamo, ad esempio, per ogni immagine mostrata al soggetto, contare quanti potenziali d'azione sono stati registrati dal vostro elettrodo e dividerli per il tempo per il quale abbiamo mostrato l'immagine. Otteniamo così un "tasso di scarica", che ovviamente dipenderà dall'immagine mostrata al soggetto.

Vi sembrerà bizzarro, ma questa semplice analisi rivelerà che in alcune zone del cervello ci sono neuroni che scaricano preferibilmente quando vengono mostrate alcuni tipi di immagini. Ad esempio, se siete degli amanti del cinema trash, avrete sicuramente alcuni neuroni nel cervello che scaricano a tutta forza quando vengono mostrate immagini di Lino Banfi.

Non sto scherzando.

PS: non mettetevi in testa adesso che il cervello funziona in maniera banale. Il fatto che per quasi ogni oggetto o concetto ci siano neuroni che scaricano, non spiega assolutamente nulla: nè il meccanismo che genera questo fenomeno, nè la sua funzione. In altre parole: del significato di tali analisi parleremo un'altra volta...

venerdì 15 gennaio 2010

Reinforcement learning, parte seconda: la punizione

Abbiamo già visto in precedenza qualche aspetto della ricompensa, e come sia possibile modificare i comportamenti appresi, e parliamo in particolare di abitudini, cambiando ricompensa. Questo è un meccanismo molto potente, ancorchè inconscio. Ed è un meccanismo basilare per l'educazione. Ci si domanda spesso, in questo contesto, quale sia il valore della punizione. Se, infatti, la ricompensa è il feedback positivo che ci insegna a ripetere comportamenti che ci procurano soddisfazione, la punizione certifica, per il cervello, che è sconveniente ripetere l'azione.

Faccio subito una precisazione: bisogna distinguere, sebbene in natura siano mescolati, l'apprendimento per feedback negativo da quello di natura emotiva. L'apprendimento per feedback negativo non è che l'altra faccia del rinforzo positivo: facendo numerosi errori pian piano impariamo ad aggiustare il tiro. Abbiamo bisogno, per questo, di diverse occasioni di errore. L'apprendimento emotivo, invece, necessita di una singola occasione: mangio cibo avariato, sto male, eviterò in futuro di mangiarne ancora. Trasferito sul piano educativo, questo meccanismo può regolare il comportamento tramite la paura. Un padre assesta un ceffone a un bambino: questi a tutta prima è sorpreso e spaventato. Il meccanismo della paura è legato al concetto di deterrente, ossia non commetto un crimine per evitare un futuro sgradevole. Nell'apprendimento tramite punizione, invece, l'episodio è ripetuto e si fa esperienza delle conseguenze negative.
Questo distinguo è importante, perchè non si fraintenda quanto segue.

Allan Collins nella sua lezione parlava di una sperimentazione in atto sui recettori niconitici, che ha in sè la grande promessa di rendere più facile l'interruzione del fumo. Abbiamo detto che ci sono recettori responsabili del piacere conseguente al fumo, e ce ne sono altri responsabili di conseguenze negative sull'apparato digerente. Ebbene, pare siano allo studio farmaci specifici per bloccare i recettori positivi, così da renderli insensibili alla nicotina, intaccando poco o nulla quelli negativi! Dopo la somministrazione del farmaco il soggetto è invitato a... fumare! Non traendo più rinforzo positivo dal fumo, ma sperimentandone solo gli inconvenienti, il soggetto pian piano perde il vizio.
Benchè i risultati siano migliori di quelli ottenuti tramite applicazioni cutanee di nicotina (cerotti), lo zoccolo duro dei fumatori non smette, probabilmente perchè resta un'associazione psicologica molto forte tra i gesti compiuti nell'atto di fumare e la ricompensa, o per altre caratteristiche individuali. Per fortuna è così: la complessità umana non si lascia ridurre a una manciata di molecole!

Il maccanismo della punizione è utilizzabile anche per imparare, come avviene quando uno gioca a freccette e mancando ripetutamente il bersaglio affina la mira. Ma quello per cui è probabilmente insostibuile è disimparare.

Chi desidera approfondire l'argomento può consultare, tra gli altri, gli articoli di Michael J. Frank.

mercoledì 6 gennaio 2010

Cattivi bambini

Non posso lasciarmi scappare l'occasione di pubblicare questo post proprio nel giorno della Befana, l'ultima chance concessa ai bambini a cui non è andata troppo bene a Natale, per fare vedere quanto siano diventati buoni nella settimana tra l'uno e l'altra.
L'ispirazione mi viene dal Nastro bianco, e dalle suggestioni letterarie del Signore delle mosche, mio libro prediletto per anni che mi è venuto in mente subito dopo la visione del film.
Il punto è a mio avviso questo: perchè gli adulti del film continuano a vedere - o a far indossare - ai bambini nastri bianchi (simbolo di purezza e innocenza), reali o metaforici che siano? E perchè nel contempo quegli stessi adulti sono violenti, bugiardi, egoisti, incestuosi? E perchè i bambini stanno - sembrano stare - al gioco?
Se non fosse stato necessario porsi la prima domanda, si sarebbe di sicuro risolta parte della trama. Se Michael Haneke non avesse sapientemente focalizzato il meccanismo deresponsabilizzante degli adulti che delegano la realizzzione di quanto è buono e puro agli adulti di domani (pur sempre radicati nell'oggi!), non ci porremmo la seconda. Se sforzarsi di corrispondere alle aspettative non fosse comportamento comune ai giovani esseri umani ancora dipendenti dagli adulti da cui, buoni o cattivi che siano, introiettano l'immagine di sè non ci porremmo la terza.
Il fatto è, e qui vengo all'intuizione letteraria di Golding, che all'immagine socialmente diffusa dell'infazia come status privilegiato pervaso dalla condizione di assoluta bontà e innocenza non corrisponde nessuna condizione ontologicamente determinata di effettiva, assoluta bontà. Non c'è quindi niente da "salvare", nè niente che possa esser "corrotto" dalla crescita o dall'ingresso nel mondo adulto.
Dirò di più. Se da un lato il pessimismo goldinghiano in merito al "particolare" status dell'infanzia e dell'adolescenza può sembrare esagerato, non si può negare, allargandoci da una singola fascia di età all'essere umano in generale, la compresenza di quello che viene comunemente definito bene e di quello che viene comunemente chiamato male (si veda in proposito questo contributo). Semplicemente, l'entità e manifestazione dell'uno e/o dell'altro variano in funzione di una serie di fattori, tra cui, pensando in funzione dell' l'età, troviamo anche l'esperienza.
Esistono quindi in noi diverse possibilità comportamentali, alcune semplicemente definite buone, altre definite cattive. Questo dovrebbe essere insegnato anche ai bambini che, non meno intelligenti degli adulti, ma semplicemente meno esperti della vita e dipendenti pertanto dagli adulti stessi, non possono fare a meno del filtro di chi costantemente li educa e dà loro l'esempio non solo per interpretare il reale, ma anche sè stessi (ricordate infatti l'importanza dei metamessaggi veicolati, attraverso il non verbale, con i messaggi impliciti).
Come avviene allora il passaggio, stavolta non agli occhi della società, ma nella mente dei piccoli adulti, dal fare delle cose cattive ad essere (o meglio: sentirsi) cattivi dentro (alias: uno dei dilemmi a mio avviso lasciati in sospeso dal film)?
Ecco, se stesse a me progettarne il sequel, coglierei la ghiotta opportunità per rigirare l'intero film, scena dopo scena, non in funzione della trama complessiva che emerge (anzi, sembra emergere, direi), ma ricostruendo su modello dell'analisi transazionale, personaggio dopo personaggio, i diversi copioni di vita... tra genitori normativi nelle varianti del "persecutore"(cioè una figura di riferimento che detta norme, divieti e giudizi ma non in funzione protettiva) e bambini adattati sottomessi o ribelli potrebbe anche non nascere una perla cinematografica, ma sicuramente ne trarremmo un cospicuo materiale didattico... Spesso capire cosa c'è dietro la realtà può esse più importante di discernere la realtà stessa. In questo senso per me non c'è nessun finale aperto: si vede quanto basta per intuire tutti i perchè che potrebbero rimanere in sospeso.

E ora, brutti bambini cattivi, finite il vostro carbone!