sabato 8 maggio 2010

Repetita: iuvant?


Nelle sue multiformi evoluzioni il linguaggio umano ha raggiunto forme sempre più complesse, consentendo, a chi sa utilizzarlo con appropriatezza, di esprimersi nella maniera più precisa possibile. Ci sono, è vero, delle differenze culturali: per alcune culture ad esempio non ci sono parole che indichino il colore verde. A noi può sembrare assurdo, per loro che magari vivono continuamente immersi nella natura il verde è un dato scontato.
Però, escludendo queste mancate corrispondenze, troviamo, entro ogni linguaggio e ogni cultura, almeno alcune parole a cui corrisponde inequivocabilmente un significato, concreto o astratto che sia: qualcosa di fortemente autoesplicativo, che non necessita ulteriore spiegazione. E una serie di altri termini che, seppure fraintendibili, collocati in determinati contesti lo sono decisamente meno. Ovviamente un discorso analogo potrebbe essere fatto anche per i gesti, per i simboli, e per tutto ciò che è comunicazione.
Ecco allora il quesito che mi affascina: cosa ci porta, nonostante questa specializzazione del linguaggio (cui dovrebbe corrispondere una maggiore efficienza qualitativa, in termini di comprensione, e quantitativa, in termini di tempo necessario a comprendere) a ripetere?

Vediamo ad esempio questa poesia di Corrado Govoni, Piccole cose:

Da ogni parte le campagne
suonano il mezzogiorno,
come morbide
zane
che vogliano
cullare il giorno.
Nella cucina il vecchio
pendolo
scatta. Il micio è andato
fuori.
Giù, nella via, un
fruttivendolo
grida "bei pomi, cavoli
fiori!"
Il moro del caminetto
ascolta la sua trottola di gesso.
Mia madre sta facendo il letto.
Io mi sono alzato adesso.
Ed è sabato, la vigilia
di Domenica. I
raggi del sole sbiadiscono.
Il calenda
rio nota la vigilia.
Passa un bi
roccio. I vetri abbrividiscono.

C'è una prima forma di ripetizione, esplicita, costituita dal sistema di alliterazioni "a catena interna " tra versi contigui (ne ho evidenziate col grasseto nero, a titolo esplicativo, soltanto due, distanti tra loro e quindi meglio evidenziabili: la f nella prima metà della poesia e la r degli ultimi tre versi). Il perchè di questa scelta, anticipata già dal titolo, è in chiara sintonia col crepuscolarismo dell'autore: porre l'accento sulle "insignificanti", piccole cose, corrispondenti appunto a parole diverse con posizioni simili all'interno dei versi.
C'è però anche un'altra forma di ripetizione, meno evidente: ricostruiamola guardando le parole evidenziate in grasseto rosso.
La relazione tra "zane" e "cullare" è chiara: si evita la cacofonia (in questo caso, la ripetizione di "culla" e "cullare" che, confermando le mie aspettative di inizio post, risulterebbe appunto eccessiva, fuori posto), rinforzando l'attenzione su un oggetto e una situazione decisamente comune... e ci ritorna su una terza volta con il "pendolo". Perché? Perché il richiamo qui non è il suono, non è la sinonimia, ma è l'idea di un movimento: si enfatizzano oggetti di uso comune ripetendone l'idea di movimento, e cioè il dondolio della culla e del pendolo (e chissà che nella mente del poeta non si sia raffigurata anche un'assonanza tra "dondolo" - implicito nell'idea appunto del dondolio - e "pendolo". A me è venuta subito in mente).
Una ripetizione, anche in quest'ultimo caso, che enfatizza e rinforza. Una scelta comunicativa, in sostanza, che nel contesto - in questo caso - poetico amplifica le possibilità espressive del linguaggio di uso comune.
Pensiamo ora invece ad un'altro frutto dell'umano intelletto, e cioè il Bolero di Ravel. In questo caso la continua ripetizione dei due temi che lo compongono è sicuramente da ricondurre alla situazione ipnotica che l'autore intende ricostruire (si veda per esempio questa interessante interpretazione e questa nota sul linguaggio musicale), ipnosi di matrice erotica se pensiamo che originariamente il balletto per cui il Bolero era stato composto prevedeva come fulcro della situazione una seducente figura femminile intenta a danzare su un tavolo mentre gli altri protagonisti della scena (uomini) si stringono progressivamente, sempre più ammaliati, intorno a lei. In questo caso, tuttavia, le note biografiche dell'autore si intrecciano con quelle musicali perché, a ben vedere, il compositore soffriva di quel male che solo più tardi sarebbe stato diagnosticato come morbo di Alzheimer.
Acquisisce allora, date queste premesse, una nuova sfumatura la ridondanza sonora così come nasce nella mente di Ravel, prima ancora di come viene eseguita in pubblico: un anticipo della ripetitività, e della sostanziale staticità, del suo pensiero o, detto altrimenti, un'anticipo "creativo" dei drammatici disturbi cognitivi a cui andrà incontro. Ripetitività, in sostanza, come imago mortis.
Può far strano ricondurre qualcosa che prima facie richiama il movimento - a maggior ragione se una musica composta per un balletto - a una quasi pulsione di morte. Eppure come considerare una ripetitività rivelatasi fine a sé stessa, se non come un finto dinamismo, finto almeno quanto il dinamismo meramente meccanico di una marionetta (in quel caso la morte non come fine di un processo ma come semplice assenza di vita è evidentemente presente)?
Anche nel nostro immaginario collettivo (incluso quello di derivazione letteraria) la marionetta, figura che ripete i movimenti di esseri umani vivi, veri, richiama alla mente - che sotto sotto non si inganna! - assieme all'idea del piccolo prodigio, un non so che di strano, innaturale. Esattamente come avviene per la larva di petroniana memoria: un non morto che può ripetere (anche all'infinito) le stesse azioni dei viventi, esorcizzando così la paura della morte.
O, ancora, Baudelaire, tanto per ritornare nell'ambito poetico, richiama l'idea della morte attraverso l'immagine dei fili che trattengono il corpo della "ripetente" per antonomasia, la marionetta: Plus encore que la Vie, La Mort nous tient souvent par des liens subtils.
Nessuna rivelazione straordinaria, per la verità: un qualunque corpo vivo non avrebbe bisogno di ripetere la vita altrui, potrebbe agirne una originale, creata da sé.
Eppure, quante situazioni non create ad artificio ci fanno vivere un anticipo di morte proprio attraverso la ripetizione? Pensiamo agli spasmi dell'epilessia: una ripetizione veloce dello stesso gesto, oggi spiegabile come un disturbo neurologico, ma in passato decisamente imperscrutabile. Ancora una volta: eccessiva, innaturale. Gli antichi risolsero la questione trascendendo l'incomprensibile, e così presso molte culture l'epilessia diventò il Male Sacro.
Il punto non è arrivare ad una lettura che sia solo razionale o solo irrazionale della questione della ripetitività. Il "nostro" (contemporaneo, occidentale) malato di demenza, ad esempio, quando pone domande ripetitive deve superare in realtà sia un problema mnemonico che di gestione dell'ansia, che a sua volta è per definizione "paura della perdita del controllo": la classica sensazione dell'essere "in bilico",o di non percepire più il confine (ad esempio tra l'essere-sentirsi vivi e tra l'essere-sentirsi morti), che è, in ultima istanza, anche un problema metafisico.
Anche in questo caso c'è un'evidenza lapalissiana: la morte è davvero ineluttabile solo per chi è vivo! Da questo punto di vista l'ansia di morire, e la gestione della stessa attraverso la ripetitività, sono un buon segno: del fatto che siamo vivi, ad esempio.
Ma neanche questo ci rassicura. Forse perché nella ripetizione c'è, per dirla con Freud, anzi forse un po' meglio con Jentsch, qualcosa di perturbante. Almeno finché la nostra mente non viene ingannata molto, molto bene (si vedano a tal proposito gli studi sulla c.d. zona perturbante o uncanny valley).
In sostanza, laddove non c'è una premeditata intenzione di ripetere qualcosa per ottenere qualcos'altro attraverso l'artificio stesso, la nostra mente (il nostro istinto di sopravvivenza? la nostra tensione all'immortalità? il bisogno di fare ordine nel reale con una visione in bianco e nero?) ci pone un aut aut: autentico contro imitazione, repetita versus unicum. E non solo nella lettura del reale, ma anche nella consapevole gestione della nostra vita, nel nostro confermarci, in quanto perituri, primariamente vivi. Con le parole di Simmel: "solo ciò che è unico e irripetibile può propriamente morire".