Mi hai chiesto, se ho capito bene, quale sia un intervento educativo molto importante, duraturo, e applicabile già da subito
Una premessa:
In questo periodo mi sto interessando al concetto di intelligenza emotiva. Per "intelligenza emotiva" si intende (detto in generale) la somma delle capacità di comprendere le emozioni proprie (autoconsapevolezza emotiva), quelle altrui (empatia), e di saperle gestire in maniera efficace. A cosa serve questa intelligenza?
Si è studiato (tra le altre cose tramite diversi studi longitudinali, per lo più in America) quale fosse ad esempio il successo scolastico di bambini in grado di contenere gli impulsi e resistere alle frustrazioni, o in grado di avere buoni rapporti con i compagni e con gli adulti, e altre qualità simili. Si è osservato che la padronanza dell'intelligenza emotiva misurata in bambini di soli quattro anni è già correlata in maniera positiva ad esempio al futuro successo scolastico e lavorativo. E non solo: essa è correlata al successo lavorativo più di quanto non lo sia il quoziente intellettivo classico misurato con i suoi tipici test in bimbi della stessa età (il quoziente intellettivo è insomma un peggiore indice predittivo del successo lavorativo e sociale).
Questo risultato deve far pensare. Perchè? Perchè la scuola si occupa principalmente dello sviluppo di capacità logico-razionali applicate alla conoscenza del mondo esterno. A scuola non ci sono vere e proprie lezioni sulle emozioni, sul nostro mondo interno, e non è affatto scontato che un insegnante possa gestire i conflitti emotivi e relazionali inevitabili nella vita scolastica facendone occasione di crescita per tutti gli alunni. Anzi. Ben poco è organizzato appositamente per la crescita emotiva degli alunni. Lo spazio dedicato alla riflessione su sé stessi è anche a scuola (così come in molti altri luoghi) estremamente ridotto. Questo è un limite di cui bisogna tener conto.
Questo limite fa sì che l'educazione emotiva impartita in famiglia sia fondamentale.
Come si educa l'intelligenza emotiva?
Nota bene: intanto soprattutto con l'esempio
Già tra due tre anni qualche chiacchierata per molti versi interessanti con il tuo bimbo la potrai fare. Nel frattempo però (e pure dopo in realtà) anche se lui non capirà il contenuto delle tue comunicazioni verbali vedrai che sarà attentissimo ad altre cose: al tuo tono di voce; alle tue inflessioni emotive; al modo in cui materialmente lo tratterai quando con lui giocherai o gli darai da mangiare; etc.
Insomma, lui sarà e sicuramente già è molto sensibile a tutti i complessi segnali non verbali delle vostre interazioni.
Cosa può fare chiunque per operare al meglio anche con questi segnali? Per trasmettere con essi tutte le emozioni positive e l'interesse che immagino tutti vogliano trasmettere ai propri cari?
Direi in breve: mettersi in discussione.
Mi dicevi sabato: "Poniamo che uno si arrabbi spesso. Come fa uno ad arrabbiarsi di meno?"
Questa domanda mi piace un sacco, la prendo come esempio.
Ai fini del nostro discorso non è tanto importante il tipo di emozione negativa che uno agisce. Potrebbe trattarsi di rabbia, tristezza, ansia. Sono invece importanti la frequenza e l'intensità con cui uno dovesse agire una certa emozione.
Cosa voglio dire?
Devi sapere che ognuno di noi si porta dietro un certo bagaglio di risposte per così dire automatiche, estremamente frequenti. Data una certa situazione ognuno avrà una sua reazione preferenziale, sviluppata in anni e anni di esperienza. Del resto in un certo senso la rabbia ci carica di energia, l'ansia ci permette una grande attenzione ai possibili pericoli, etc. Insomma: anche cose apparentemente negative hanno una loro utilità che ci spinge ad agirle.
Quand'è che queste cose diventano davvero negative?
Quando le agiamo di continuo, senza pensarci, e magari con un'intensità ben diversa da quanto vorremmo.
Allora prima pensa: "qual è la mia reazione per così dire tipica ai problemi?"
"Mi arrabbio?"
"Mi preoccupo?"
"Mi rattristo?"
Dopo, lavora per riconoscere quando reagirai in questa tua tipica maniera automatica ad esempio al pianto incomprensibile del tuo bambino, o a chissà quali altre cose che inevitabilmente capiterannno nel tuo percorso con lui.
Quando riconoscerai una di queste tue rispose automatiche chiediti: "Cosa potrò fare la prossima volta che avrò un problema simile?" - oppure, nelle occasioni migliori: "Cos'altro posso fare già ora?" - "Passato il colmo dell'emozione potrò dedicarmi ad una soluzione più efficace di quella adottata adesso. Quale?"
Il passo successivo sarà ovviamente la pratica. E' qualcosa di simile al metodo scientifico:
"Osservazione", "Ipotesi", "Esperimento"
E ok. Per adesso questo è quanto
A presto
P.S.: ho preferito mantenere il formato di "lettera" per questo post per vari motivi. Uno di essi è importante: il "metodo" da me suggerito è efficace quando si intende intervenire su di sé in un certo senso a prescindere dall'altro che entra a far parte della nostra reazione. Questa è esattamente la condizione in cui si trova un genitore.
Il pianto di un bambino di pochi mesi è geneticamente programmato per essere un evento fastidioso per gli adulti. Del resto se consistesse in una melodiosa carezza acustica potremmo facilmente continuare ad ignorarlo, magari a sognare mentre il bimbo ha per esempio molta fame, o molto freddo. Di fronte ad un pianto noi potremo avere tutte le migliori ragioni del mondo per infastidirci (magari esserci appena addormentati dopo chissà quante notti insonni). Ma se reagiremo solo con rabbia, ansia, sconforto, o quant'altro, non so proprio cosa potremo ottenere di buono per noi e per il nostro bambino. Nè potremo pretendere da lui che la prossima volta ci chiami con calma e parole dolci.
Quindi: con questo metodo potremo almeno provare ad intervenire con una mentalità attiva là dove avremo zero controllo sull'evento per noi emotivamente scatenante, ed in questo modo avere un'occasione per determinare per noi una differenza in positivo
Una premessa:
In questo periodo mi sto interessando al concetto di intelligenza emotiva. Per "intelligenza emotiva" si intende (detto in generale) la somma delle capacità di comprendere le emozioni proprie (autoconsapevolezza emotiva), quelle altrui (empatia), e di saperle gestire in maniera efficace. A cosa serve questa intelligenza?
Si è studiato (tra le altre cose tramite diversi studi longitudinali, per lo più in America) quale fosse ad esempio il successo scolastico di bambini in grado di contenere gli impulsi e resistere alle frustrazioni, o in grado di avere buoni rapporti con i compagni e con gli adulti, e altre qualità simili. Si è osservato che la padronanza dell'intelligenza emotiva misurata in bambini di soli quattro anni è già correlata in maniera positiva ad esempio al futuro successo scolastico e lavorativo. E non solo: essa è correlata al successo lavorativo più di quanto non lo sia il quoziente intellettivo classico misurato con i suoi tipici test in bimbi della stessa età (il quoziente intellettivo è insomma un peggiore indice predittivo del successo lavorativo e sociale).
Questo risultato deve far pensare. Perchè? Perchè la scuola si occupa principalmente dello sviluppo di capacità logico-razionali applicate alla conoscenza del mondo esterno. A scuola non ci sono vere e proprie lezioni sulle emozioni, sul nostro mondo interno, e non è affatto scontato che un insegnante possa gestire i conflitti emotivi e relazionali inevitabili nella vita scolastica facendone occasione di crescita per tutti gli alunni. Anzi. Ben poco è organizzato appositamente per la crescita emotiva degli alunni. Lo spazio dedicato alla riflessione su sé stessi è anche a scuola (così come in molti altri luoghi) estremamente ridotto. Questo è un limite di cui bisogna tener conto.
Questo limite fa sì che l'educazione emotiva impartita in famiglia sia fondamentale.
Come si educa l'intelligenza emotiva?
Nota bene: intanto soprattutto con l'esempio
Già tra due tre anni qualche chiacchierata per molti versi interessanti con il tuo bimbo la potrai fare. Nel frattempo però (e pure dopo in realtà) anche se lui non capirà il contenuto delle tue comunicazioni verbali vedrai che sarà attentissimo ad altre cose: al tuo tono di voce; alle tue inflessioni emotive; al modo in cui materialmente lo tratterai quando con lui giocherai o gli darai da mangiare; etc.
Insomma, lui sarà e sicuramente già è molto sensibile a tutti i complessi segnali non verbali delle vostre interazioni.
Cosa può fare chiunque per operare al meglio anche con questi segnali? Per trasmettere con essi tutte le emozioni positive e l'interesse che immagino tutti vogliano trasmettere ai propri cari?
Direi in breve: mettersi in discussione.
Mi dicevi sabato: "Poniamo che uno si arrabbi spesso. Come fa uno ad arrabbiarsi di meno?"
Questa domanda mi piace un sacco, la prendo come esempio.
Ai fini del nostro discorso non è tanto importante il tipo di emozione negativa che uno agisce. Potrebbe trattarsi di rabbia, tristezza, ansia. Sono invece importanti la frequenza e l'intensità con cui uno dovesse agire una certa emozione.
Cosa voglio dire?
Devi sapere che ognuno di noi si porta dietro un certo bagaglio di risposte per così dire automatiche, estremamente frequenti. Data una certa situazione ognuno avrà una sua reazione preferenziale, sviluppata in anni e anni di esperienza. Del resto in un certo senso la rabbia ci carica di energia, l'ansia ci permette una grande attenzione ai possibili pericoli, etc. Insomma: anche cose apparentemente negative hanno una loro utilità che ci spinge ad agirle.
Quand'è che queste cose diventano davvero negative?
Quando le agiamo di continuo, senza pensarci, e magari con un'intensità ben diversa da quanto vorremmo.
Allora prima pensa: "qual è la mia reazione per così dire tipica ai problemi?"
"Mi arrabbio?"
"Mi preoccupo?"
"Mi rattristo?"
Dopo, lavora per riconoscere quando reagirai in questa tua tipica maniera automatica ad esempio al pianto incomprensibile del tuo bambino, o a chissà quali altre cose che inevitabilmente capiterannno nel tuo percorso con lui.
Quando riconoscerai una di queste tue rispose automatiche chiediti: "Cosa potrò fare la prossima volta che avrò un problema simile?" - oppure, nelle occasioni migliori: "Cos'altro posso fare già ora?" - "Passato il colmo dell'emozione potrò dedicarmi ad una soluzione più efficace di quella adottata adesso. Quale?"
Il passo successivo sarà ovviamente la pratica. E' qualcosa di simile al metodo scientifico:
"Osservazione", "Ipotesi", "Esperimento"
E ok. Per adesso questo è quanto
A presto
P.S.: ho preferito mantenere il formato di "lettera" per questo post per vari motivi. Uno di essi è importante: il "metodo" da me suggerito è efficace quando si intende intervenire su di sé in un certo senso a prescindere dall'altro che entra a far parte della nostra reazione. Questa è esattamente la condizione in cui si trova un genitore.
Il pianto di un bambino di pochi mesi è geneticamente programmato per essere un evento fastidioso per gli adulti. Del resto se consistesse in una melodiosa carezza acustica potremmo facilmente continuare ad ignorarlo, magari a sognare mentre il bimbo ha per esempio molta fame, o molto freddo. Di fronte ad un pianto noi potremo avere tutte le migliori ragioni del mondo per infastidirci (magari esserci appena addormentati dopo chissà quante notti insonni). Ma se reagiremo solo con rabbia, ansia, sconforto, o quant'altro, non so proprio cosa potremo ottenere di buono per noi e per il nostro bambino. Nè potremo pretendere da lui che la prossima volta ci chiami con calma e parole dolci.
Quindi: con questo metodo potremo almeno provare ad intervenire con una mentalità attiva là dove avremo zero controllo sull'evento per noi emotivamente scatenante, ed in questo modo avere un'occasione per determinare per noi una differenza in positivo