In medicina uno dei momenti cruciali del processo terapeutico è la
diagnosi. Infatti solamente dopo che un certo disturbo è stato identificato è possibile curarlo facendo riferimento a tutto il corpus di conoscenze scientifiche che su di esso sono state accumulate nel tempo. Semplificando, una volta diagnosticata una frattura si sa ad esempio che per curarla è bene applicare all'arto fratturato un gesso che lo immobilizzi, così che l'osso al suo interno possa lentamente ricrescere e la funzionalità dell'arto possa essere recuperata. E' interessante notare come la diagnosi "frattura" permetta al medico di arrivare ad una terapia senza che questi debba lambiccarsi più di tanto il cervello sul perché della frattura stessa. Che si sia caduti, o scivolati, o che si sia finiti male nel tentativo di realizzare un Guinness dei primati, la soluzione sarà sempre la stessa. Non solo: una volta che il nostro braccio o la nostra gamba saranno guariti difficilmente ce li romperemo di nuovo... ...o almeno così si spera :)
I più informati potranno ora aver pensato: "E l'
osteoporosi? Come la mettiamo?" Essi avranno pensato a questo punto ad un'altra etichetta diagnostica, che individua una qualche forma di predisposizione ad avere fratture. Dico "una qualche forma", perché anche di "osteoporosi" così come di "frattura" e pressoché di ogni altra diagnosi esistono molteplici varietà. Laddove un paziente dovesse riportare molteplici fratture in un breve periodo di tempo il medico che dovesse averlo in cura potrebbe doversi preoccupare non più solo della terapia delle singole fratture ma anche della presa in carico di una osteoporosi.
Perché mi dilungo (si fa per dire) su questi disturbi fisici, di competenza medica?
Volevo degli esempi che mostrassero chiaramente come la diagnosi è né più né meno che uno strumento, un passo del complesso processo terapeutico. Il terapeuta una volta fatta una diagnosi è in grado di ricollegare i sintomi lamentati dal paziente ad un più o meno preciso insieme di conoscenze scientifiche (o perlomeno supposte tali), e di scegliere così la o le forme di terapia che ritiene più adeguate per la cura del disturbo stesso.
Volevo inoltre far rilevare dei concetti importanti: una cosa è il disturbo ("il male in sé"), un'altra la diagnosi ("l'etichetta che il clinico attribuisce al disturbo"), un'altra ancora (o altre ancora) le cause che determinano il disturbo stesso ("
eziologia"); rimane inoltre da considerare che una volta posta una certa diagnosi (non sempre certa, a volte solo probabile), e quindi una volta ipotizzate la presenza di un certo disturbo nonché, se possibile, delle eziologie per lo stesso, il clinico dovrà ancora scegliere tra molteplici forme di terapia prima che il paziente possa arrivare ad ottenere la sua tanto agognata guarigione.
A cosa servono queste precisazioni?
Per cominciare, dovrebbero metterci in guardia rispetto ad un errore fatto talvolta persino nel mondo della medicina, cioè usare etichette diagnostiche relative a dei disturbi per identificare un paziente. Pensando al passato abbiamo l'esempio del "lebbroso", o dell' "appestato"; oppure, fino a non poco tempo fa sapevamo di dover stare attenti a parlare di "portatore di handicap" e non di handicappato (ora diremmo forse "diversamente abile" ma questa è, per così dire, un'altra storia). Nell'ambito dei disturbi mentali il pericolo e la frequenza di questa confusione è ancora maggiore: "...lascialo stare a quello, lui è..." ...un depresso", "...un drogato", "...uno schizofrenico", etc etc. Un'etichetta diagnostica è assolutamente insufficiente già solo per identificare un disturbo, figuriamoci per descrivere una persona; anche senza considerare gli effetti dello stigma sociale che discendono da questa identificazione (già accennati nel
precedente post di
Sovrappensiero) l'identificazione del paziente stesso in una diagnosi è talvolta un ostacolo alla sua guarigione (es: "sono fatta così, sono anoressica").
Oggi il paradigma di studio più accreditato delle cause all'origine di un disturbo mentale prevede che esse siano di tre diversi ordini: "bio"-"psico"-"sociali". In sostanza, perché ci sia un disturbo mentale dev'essere presente una combinazione di questi tre fattori. Grossomodo, la parte biologica fa riferimento alla base genetica di ognuno, che determina punti di forza ma anche di vulnerabilità, a seconda delle esperienze con cui poi l'individuo si dovrà confrontare (esagerando, immaginate un individuo con un comodo salvagente "in dotazione genetica", e quanto diversamente questo gli sarebbe d'aiuto a seconda del suo doversi confrontare con il mare o con un deserto); la parte psicologica consiste, sempre grossomodo, nel modo in cui ognuno di noi ha imparato a far fronte a determinate esperienze, modo magari adatto e quanto mai di successo nella stragrande maggioranza dei casi, ma, per esempio, insufficiente di fronte ad un terremoto (o anche davanti ad altre esperienze di vita meno estreme); la parte sociale è relativa infine alla maggiore o minore efficacia con cui le reti sociali in cui siamo inseriti possono aiutarci o ostacolarci nel far fronte a determinate esperienze.
Diagnosi di disturbi mentali identiche almeno limitatamente all'etichetta (ad es. "depressione maggiore") possono avere eziologie anche molto diverse tra di loro, avere un diverso tipo di substrato biopsicogenetico, e richiedere pertanto trattamenti anche molto diversi tra loro. Attualmente, un clinico (psicologo o psicoterapeuta) che voglia davvero fare una buona diagnosi dovrà stare bene attento ad individuare l'etichetta (o le etichette) diagnostica migliore tra quelle disponibili, approfondire anamnesi, storia familiare, notizie biografiche, struttura di personalità del paziente, escludere eventuali cause biologiche, e solo allora potrà con buona approssimazione scegliere tra le terapie possibili per quel disturbo proprio quella più efficace per quel singolo paziente.
In conclusione, è vero che una buona diagnosi ci semplifica grandemente le cose quando vogliamo avere informazioni relative all'andamento prevedibile medio di un disturbo mentale, ma ciononostante perché il disturbo mentale di un singolo paziente possa davvero essere curato la diagnosi di quello stesso disturbo non sarà che una piccola parte delle molte conoscenze che assieme al paziente dovremo acquisire non solo sulle specifiche caratteristiche del suo disturbo in particolare ma anche e soprattutto su di lui (il paziente stesso) più in generale nonché sul suo mondo "biopsicosociale".