Se un albero cade nella foresta, ma nessuno si trova lì intorno a sentirlo, emette un suono?
George Berkeley
Vorrei tornare su un argomento toccato in questo post. Premetto che ha poco a che fare con le neuroscienze, si tratta di una speculazione in un campo nel quale sono profano.
Si discuteva della consapevolezza di sè, la cui definizione forse banale non é; nella discussione di allora se ne parlava come della capacità di una persona di sottoporre alla propria attenzione espressioni della propria interiorità e del proprio comportamento. Maggiore la consapevolezza di sè, maggiore la quantità di informazione su se stessi accessibile esplicitamente, laddove "esplicito" va inteso in analogia con l'apprendimento implicito/esplicito: il criterio sarebbe così la capacità di verbalizzare l'informazione posseduta.
Si diceva nel post che ci sono modi individuali di ampliare la propria consapevolezza di sè; per un raffronto si può leggere questo blog. Infine si dibatteva se questa qualità sia un mezzo o un fine.
In questo post vorrei argomentare che:
1. la manipolazione cosciente del comportamento presenta vantaggi e svantaggi, e non sembra costituire il fine ultimo dell'apprendimento;
2. le azioni umane non sembrano motivate da un'esigenza di maggior consapevolezza, e una maggior consapevolezza non pare rispondere alle domande essenziali a cui il comportamento umano (inclusa la ricerca della consapevolezza di sè) fornisce una risposta.
Col primo punto mi riferisco al fatto che il trovarci ad analizzare coscientemente dati avviene nostro malgrado, è insomma un sottoprodotto del fine che vogliamo conseguire. Quando ad esempio abbiamo imparato a guidare, abbiamo attraversato una fase nella quale ogni nostra azione era controllata attentamente. In realtà non potremmo guidare, se dovessimo pensare a ogni movimento! Saremmo troppo lenti, perché la coscienza ha una capacità troppo ridotta.
Lo stesso discorso vale per altri esempi di apprendimento procedurale. La competenza è tale proprio perché non richiede la mediazione dell'attenzione. Applicare questo discorso all'apprendimento concettuale può sembrare inappropriato, ma proviamoci. Pensiamo al linguaggio. Pensiamo alle associazioni "overlearned", cioè ultra-apprese, as esempio tra il volto e il nome dei nostri cari. Questo è un esempio di memoria esplicita, eppure con l'andare del tempo diviene implicita, e non richiede più la nostra attenzione (osserviamo per inciso che questo potrebbe dipendere dal consolidamento dell'informazione, inizialmente codificata dall'ippocampo, nella corteccia cerebrale).
Una volta discorrevo di Leopardi, e il mio interlocutore mi ha detto:"Secondo te quando tempo ci ha messo Leopardi a scrivere questi capolavori? Mesi? Anni? No. Li ha buttati giù così, perché talmente era intriso di cultura classica che gli veniva naturale."
Ecco, la competenza a cui aspiriamo è questa. E credo sia così anche per le cose della vita: desideriamo comportarci in modo diverso, ma fluidamente, senza sforzo.
La consapevolezza è uno strumento utilissimo, necessario ogniqualvolta dobbiamo adattare il nostro comportamento. Se, per esempio, ci recassimo in Gran Bretagna, sarebbe terribilmente pericoloso attraversare la strada affidandoci all'esperienza maturata altrove!
Dunque la consapevolezza di sè serve quando vogliamo adattarci. Viviamo in un ambiente complesso, in cui questa esigenza si manifesta spesso; quindi effettivamente una maggior consapevolezza potrebbe risultare vantaggiosa.
Ma esiste poi questa quantità? Esistono dei gradi che uno può conquistare? Una volta conquistato un grado si può tornare indietro? In accordo con l'idea che si tratti di uno strumento di adattamento, è plausibile pensare che serva più nel momento in cui le condizioni cambiano, rispetto a quando restano stabili. E poi, se la fase di adattamento nasce come transitoria, ci si potrebbe chiedere: ma davvero noi ci vogliamo adattare? Qual è la pressione che ci induce a compiere questo sforzo? Forse il dolore, o l'ambizione?
Se uno osserva la storia umana, forse è più propenso ad affermare che l'uomo cerca di adattare l'ambiente alle proprie esigenze. Diciamocielo francamente: con tutta la nostra autoconsapevolezza, cambiare il nostro comportamento - o addirittura la nostra personalità - è una fatica bestiale. Mica è detto che sia la soluzione migliore, peraltro. Potremmo cercare di mantenerci nella nostra "nicchia ecologica" e dedicare attenzione ad altre cose, che non siano il miglioramento di noi stessi. Potremmo anche solo goderci la vita. Che motivazione abbiamo per fare altrimenti?
Ecco, secondo me le azioni che noi compiamo rispondono a dei bisogni. Alcuni sono basilari. Ma la nostra vita non si esaurisce a questi: se così fosse faremmo come i leoni, che riposano circa 20 ore al giorno.
Io trovo che la domanda fondamentale a cui cerchiamo risposta se la sia fatta Cartesio. La domanda è: come faccio a sapere che esisto?
Uno potrebbe pensare che una simile domanda astratta richieda già un certo talento concettuale. Non è così, perché si può domandarselo implicitamente. La cosa è chiarissima in contesto sociale: ciascuno è alla ricerca di indizi che testimonino la considerazione che di lui/lei gli altri hanno. Cosa pensa "x" di me? Quanto valgo? È appropriato che mi comporti in un certo modo? Le percezioni sono poco potenti nell'assicurarci che esistiamo: non ci basta guardarci intorno e così constatare la funzionalità del nostro sistema visivo. Noi cerchiamo effetti, cerchiamo tracce del nostro impatto nel mondo. Vogliamo essere riconosciuti (si leggano "Le notti bianche" citate nel post precedente). Quando uno grida ed esercita violenza, cerca di ottenere un impatto che altrimenti non sarebbe alla sua portata. Quando uno lavora e riceve stima, denaro, o un manufatto, trova la rassicurazione che egli esiste. Quando uno guarda i suoi figli, trova in essi la certezza: "Da me si è originato questo essere vivente". Quando facciamo shopping sfrenato, quando divoriamo la cena, non diventano forse questi beni di consumo testimonianza del nostro impatto?
E la morte che ci spaventa tanto, non è forse il momento in cui cessiamo di esistere?
Da bravo nerd, la risposta individuale di Cartesio, paladino tipo della consapevolezza di sè, è: cogito, ergo sum. Il dubbio sostanzia l'uomo. Ma questa è la risposta di Cartesio. Se uno si guarda intorno, vedrà gente che lavora 12 ore al giorno, gente che si impegna a far quattrini, gente affaccendata in relazioni sociali, gente che vuole andare in tv. Tutte risposte a questa istanza primaria: esistere, avere un impatto, essere visti, riconosciuti. Ago, ergo sum. Cartesio era un pensatore, e perciò la sua azione si è dipanata tramite la manipolazione del pensiero. È un caso notevole, perché non produce un feedback sensibile (es. un sorriso amico o un oggetto di artigianato). È simile in questo alla religione.
In tutti i casi, incluso quello religioso, non sembra si sia in grado di convincersi definitivamente, irreparabilmente, della propria esistenza e individualità. Nel caso del religioso, è l'esistenza di Dio che mi sostanzia, e le azioni che compio hanno impatto nella Storia della Salvezza. Un cardine della religione sta proprio nella possibilità di agire sugli dèi, circostanza particolarmente evidente nei culti più antichi. In chiave cattolica si potrebbe persino leggere il peccato originale sotto questa luce: Adamo ed Eva si sostanziano con un'azione trasgressiva. "Non morirete affatto, anzi diventerete come Dio" - il cui nome, "Io sono", rimanda esplicitamente al tema dell'esistenza.
In tutto questo, la consapevolezza non è una risposta. La più alta consapevolezza di sè non sembra capace di spegnere questo dubbio. L'elaborazione cosciente è il mezzo di cui tutti ci serviamo per ottenere, in modo adattabile ed efficiente, il palliativo a noi più adeguato - il lavoro, il denaro, la socialità, l'apostolato ecc. La consapevolezza di sè è importante per capire quale sia il palliativo a noi più adatto (e per fare un mucchio di altre scelte pratiche!).
Ma la pietra filosofale qui è la scoperta che esistiamo sul serio, senza bisogno di alcuna conferma. Tutto ciò che non fa questo assume valore di mera conferma, perché la domanda "Chi sono io?" (consapevolezza di sè) viene dopo la domanda ancor piú fondamentale: "Sono io?".
Per questo affermo che il mito della consapevolezza di sè è un'altra foglia di fico posta dinanzi alla nudità umana, e per questo ritengo che non sia da innalzarsi a fine, nè sia una cosa in sè buona, più di quanto lo siano la capacità di coordinare i propri moviementi o di distinguere sottili differenze sonore.
3 commenti:
Ho letto e riletto questo intervento, finalmente sono pronto ad interagirci.
In un primo tempo cercherò di sgombrare il campo su un equivoco occorso rispetto a quanto da me precedentemente scritto. Quindi, dopo essermi spiegato meglio, dirò la mia su quanto scritto specificatamente in questo post.
Comincio dalla parte analitica e di chiarimento:
In questo post leggiamo:
"Si discuteva della consapevolezza di sé, la cui definizione forse banale non é; nella discussione di allora se ne parlava come della capacità di una persona di sottoporre alla propria attenzione espressioni della propria interiorità e del proprio comportamento.
Maggiore la consapevolezza di sé, maggiore la quantità di informazione su se stessi accessibile esplicitamente, laddove "esplicito" va inteso in analogia con l'apprendimento implicito/esplicito: il criterio sarebbe così la capacità di verbalizzare l'informazione posseduta."
Concordo, ma sulla prima parte (che per questo ho staccato dal resto). Infatti:
"Io sostengo ... ... che uno degli strumenti più importanti per l'uomo sia il linguaggio verbale. L'uomo ha sviluppato però una molteplicità di linguaggi, quali ad esempio linguaggi artistici di tipo figurativo o musicale, oppure linguaggi formalizzati quale quello matematico, o linguaggi multimodali quali quelli utilizzati nelle comunicazioni massmediatiche.
E' invece con il linguaggio verbale che cerchiamo nella maggior parte dei casi di ordinare nel modo migliore il gran caos informativo che risulta dalla molteplicità degli eventi quotidiani a cui siamo sottoposti.
Attenzione però: l'uso del linguaggio verbale non ci svela mai la totalità né del mondo esterno né del mondo interno. Il linguaggio è uno strumento, e in quanto tale oltre a pregi presenta anche difetti, limiti."
C'è insomma una certa differenza tra la "consapevolezza di sé" intesa come "capacità di una persona di sottoporre alla propria attenzione espressioni della propria interiorità e del proprio comportamento" e la "consapevolezza di sé" intesa come "consapevolezza esplicita" (ovvero sia verbale che verbalizzabile).
Noi possiamo anche essere consapevoli di (ovvero percepire con la nostra attenzione) fenomeni esterni visivi, acustici-ma-non-verbali, odorosi, etc. E parimenti possiamo esprimerci riguardo gli stati del nostro mondo interno non solo attraverso il canale verbale ma anche tramite una miriade di altri comportamenti e linguaggi assolutamente non verbali. Ancora, a qualcuno sarà capitato pure di sentire (percepire con la propria attenzione) degli stati fisici interni che non si sente assolutamente in grado di esprimere.
Per riassumere: non ritengo che l'unica forma di consapevolezza di (e ancor più di ricerca della propria consapevolezza di) sé debba essere quella esplicita. Anche se, vero, attribuisco alla consapevolezza esplicita una certa importanza, dal momento in cui ci permette (ma solo entro certi limiti) tutta una serie di possibilità di cambiamento.
Aggiungo inoltre che proprio per questa mia opinione mi differenzio da quanto immagino (ma non sono sicuro che) ritenga l'autore dell'altro blog citato.
Andiamo avanti; sui punti:
"1. la manipolazione cosciente del comportamento presenta vantaggi e svantaggi, e non sembra costituire il fine ultimo dell'apprendimento;
2. le azioni umane non sembrano motivate da un'esigenza di maggior consapevolezza, e una maggior consapevolezza non pare rispondere alle domande essenziali a cui il comportamento umano (inclusa la ricerca della consapevolezza di sé) fornisce una risposta."
concordo sul primo punto. Il secondo mi sembra invece generalizzare un po' troppo, per certi versi è opinabile. Si facciano queste due constatazioni: come ho già detto anche nel mio precedente post, mentre alcune proprie azioni promuovono una maggiore consapevolezza sia di sé stessi che del mondo esterno, altre proprio non lo fanno. Ancora, ci sono volte in cui ci impegniamo nello stare attenti a o ancor più specificatamente nel rendere espliciti verbalmente determinati stati, modi di essere, del nostro mondo esterno o interno (le nostre azioni sono insomma proprio motivate da questo). In questi casi, lapalissianamente, la maggiore consapevolezza che otteniamo risponde decisamente alla nostra domanda di ricerca di una maggiore consapevolezza. Ci sono altre volte in cui invece semplicemente, rispetto a determinate esperienze, "siamo".
Infine, un'ultima osservazione; cito ancora:
“Col primo punto mi riferisco al fatto che il trovarci ad analizzare coscientemente dati avviene nostro malgrado, è insomma un sottoprodotto del fine che vogliamo conseguire.”
Sono in disaccordo: disponiamo sia di una consapevolezza (intesa come pura attenzione) volontaria che di una consapevolezza involontaria. E parimenti la consapevolezza esplicita può generalmente essere attivata “a piacere”. Nei casi, ad esempio quelli di un disturbo ossessivo-compulsivo o di una schizofrenia in atto, in cui si è consapevoli verbalmente di qualcosa per davvero "nostro malgrado", l'esperienza verbale che si ha viene percepita rispettivamente come intrusiva (nel primo caso) o addirittura come a noi estranea (nel secondo caso).
Cosa voglio dire insomma? Voglio dire che sì, è vero, ci sono casi in cui la consapevolezza, perlomeno quella verbale, ci può essere addirittura di ostacolo (senza considerare le patologie, si pensi ad una persona che voglia apprendere determinati gesti atletici; l'apprendimento per imitazione sarà in questo caso certamente molto più utile di quello verbale, ed avrà un'influenza decisamente maggiore sul modo di essere futuro della persona). Ci sono invece altri casi in cui la consapevolezza, ed in particolare la consapevolezza esplicita, verbale, è praticamente insostituibile (si pensi ad esempio all'apprendimento della “Storia”, intesa come disciplina scolastica, oppure ancor più alla narrazione della “storia” personale propria o di altri, che pure c'entra sempre con quanto facciamo oggi). E l'essere o il non essere consapevoli non dico per forza della propria Storia ma quanto meno della propria storia (un minuscolo un po' ironico), fa sicuramente una certa differenza per quanto riguarda il nostro puro e semplice "modo di essere".
Col resto dell'intervento invece sostanzialmente concordo, salvo che per quanto detto nella conclusione: è vero, l'esserci viene prima della consapevolezza di farlo. Però il “chi sono io” influenza senza alcun dubbio in maniera determinante il “sono io” puro e semplice, e senza dubbio ben più delle altre capacità citate.
Carissimo Longbeard Cux,
in riferimento al tuo primo commento, ho proposto il criterio di verbalizzabilità dell'informazione non per affermare che questa consapevolezza fosse di natura verbale, ma per individuare un criterio operativo per capire di cosa stessimo parlando. In altre parole, se volessi misurarla, questa consapevolezza di sè (sapendo che la misura sarà imperfetta!), come farei? Risposta: controllando se sia verbalizzabile.
Quello che dici però mi incuriosisce. Ammetto la consapevolezza senza verbo, ad esempio nella percezione; ma quando dici che ci sono "una miriade di altri comportamenti e linguaggi assolutamente non verbali" a cosa ti riferisci esattamente? Considera che non tutti sono Leonardo da Vinci, per cui secondo me il campo di queste espressioni non verbali coscienti è alquanto ristretto. Quando poi scrivi "a qualcuno sarà capitato pure di sentire (percepire con la propria attenzione) degli stati fisici interni che non si sente assolutamente in grado di esprimere", non ti suona simile alla definizione che hai riportato di alessitimìa nel tuo post?
Nel secondo intervento c'è forse un fraintendimento; io non nego che sussista un impegno per l'acquisizione della consapevolezza e che si possano mettere in atto comportamenti che servono a questo scopo; acquisisco però il punto di vista che il nostro comportamento sia diretto da incentivi. Chi si scervella, secondo me, non lo fa tanto per risolvere un problema e conoscere se stesso, quanto per affermare a se stesso la propria esistenza - e questa azione la qualifico come un incentivo non primario assolutamente generale nell'uomo. Insomma il mio post verte sull'utilità, gli scopi e l'applicazione di questa autoconsapevolezza, senza metterne in dubbio l'esistenza.
Non vedo supporto per la tua conclusione - trovo che il tuo sia il punto di vista del nerd cartesiano, categoria nella quale cado anche io. Ma laddove du scrivi "senza dubbio" io neppure vedo prove.
La questione dell'apprendimento, sia esso autobiografico o semantico, merita un approfondimento in un futuro post.
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