C'è una cosa che gli Aa sembrano omettere di menzionare quando sei nuovo e completamente fuori di testa dalla disperazione e pronto a eliminare per sempre la tua mappa e ti tocca sentirti dire che le cose andranno sempre meglio se continuerai ad astenerti e darai tempo al tuo corpo di riprendersi : omettono di dirti che il modo per migliorare e stare meglio passa attraverso il dolore. Non intorno al dolore o nonostante il dolore. Questa parte la lasciano fuori, e parlano invece di Gratitudine e di Liberazione dalla Compulsione. Invece si sente molto dolore a stare sobri, e di questo ti accorgi dopo, con il tempo. Poi, quando sei pulito e non desideri le Sostanze più di tanto e hai voglia sia di piangere sia di ridurre in poltiglia qualcuno, gli Aa di Boston cominciano a dirti che sei sulla strada giusta e faresti bene a ricordarti la sofferenza senza scopo di quando eri assuefatto, perché almeno questa sofferenza sobria adesso ha uno scopo. Ti dicono che perlomeno questa sofferenza significa che stai andando da qualche parte, invece di girare all'infinito nella ruota del topolino come quando eri assuefatto.
Tralasciano di dirti che dopo la magica sparizione del bisogno di farsi e sei o otto mesi di fila senza Sostanze, comincerai a «Entrare in Contatto» con il perché avevi cominciato a fare uso delle sostanze. Quando arrivi a questo punto, comincerai a capire come mai eri diventato dipendente da quello che, in fondo, non era che un anestetico. Viene fuori che «Entrare in Contatto con i Tuoi Sentimenti» è un'altra frase fatta che finisce per mascherare qualcosa di orribilmente profondo e reale*. Si scopre che tanto più è insipida la frase fatta degli Aa, tanto più affilati sono i canini della verità vera che nasconde.
...
*Un epigramma più astratto ma più vero che i veterani di sobrietà della Bandiera Bianca a volte preferiscono a questo è: «Non preoccuparti di entrare in contatto con i tuoi sentimenti, saranno loro a contattare te»."
(D.F. Wallace, "Infinite Jest")
Alessitimia
Letteralmente alessitimia sta per "mancanza di parole per le emozioni". I soggetti alessitimici presentano come centrali le seguenti caratteristiche:
"...
- difficoltà a discriminare un'emozione dall'altra, e gli stati somatici dalle emozioni; ...
- difficoltà a comunicare ad altri le proprie emozioni;
- presenza di processi immaginativi coartati, con scarsezza di vita fantasmatica ...;
- presenza di uno stile cognitivo legato allo stimolo, orientato all'esterno ...
..."
(L. Solano, "Tra mente e corpo")
Come sono in relazione tra loro queste due citazioni? Cosa c'entra un romanzo di fantasia con un costrutto psicologico nato nell'ambito dello studio delle patologie psicosomatiche? I collegamenti in realtà sono molteplici, e passano anche attraverso alcuni degli studi e delle teorie di Bion (in particolare quelli sul "pensiero senza pensatore"), nonchè attraverso la conoscenza delle basi di quanto ci è noto sulle emozioni. Ad ogni modo...
...come un po' tutti sappiamo, ogni giorno il nostro cervello si trova a dover conciliare le esigenze della realtà in cui viviamo (il mondo esterno), con quelle del nostro corpo e della nostra mente (il mondo interno). Un esempio: il nostro corpo reagisce a e sposta la nostra attenzione su quella bella ragazza formosa che sta passando proprio davanti a noi per strada; la nostra mente comincia a considerare il modo migliore di approcciarla (o ignorarla magari) tenendo conto delle nostre presenti o meno esperienze pregresse; la realtà esterna si materializza sotto forma di un grande orologio digitale sul palazzo di fronte che ci ricorda il ritardo di mezz'ora con cui ci stiamo dirigendo verso il luogo del nostro prossimo appuntamento.
Cosa succede a questo punto dentro di noi? come cambierebbe la nostra reazione se per esempio la ragazza avesse affianco a sé un affascinante ragazzo? o se noi ci fossimo appena lasciati con la nostra partner? o se la ragazza fosse una perfetta sconosciuta o magari invece una nostra "vecchia fiamma" da tempo persa di vista?
Non esistono risposte univoche a queste domande. A seconda della nostra personalità (vista in un'ottica biopsicosociale) dentro di noi ci potranno essere una molteplicità di reazioni diverse. Ciò che vorrei far rilevare è come nel caso preso per esempio un evento esterno si ripercuota in noi provocando non solo una serie di reazioni di tipo cognitivo (un susseguirsi di pensieri in forma di ragionamenti, o ricordi, o fantasie) ma anche una serie di cambiamenti di tipo fisiologico (ad es. un vago senso di eccitazione) ad un livello più profondo di quello semplicemente corticale. In un'emozione sono sempre implicati questi tre diversi livelli: quello degli eventi inerenti la realtà esterna, quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di cambiamenti fisiologici profondi, e infine quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di risposte ad un livello un po' più astratto, cioè di tipo cognitivo, mentale. Ora, è chiaro che qualunque evento interno di tipo cognitivo o "mentale" ha dei correlati fisiologici nel nostro cervello; quella che voglio qui evidenziare è però la presenza di una differenza tra una reazione più di tipo corticale o per quanto possibile limitata al sistema nervoso centrale, ed una di tipo più interno, non soltanto sottocorticale ma invece inerente tutto il corpo nel senso di modificazioni al sistema endocrino, all'apparato muscoloscheletrico, a quello vascolare, al piano delle risposte immunitarie, etc. (qui però mi serve davvero l'illuminazione delle neuroscienze per sapere quanto questa mia distinzione sia effettivamente fondata), una reazione tanto più presente quanto più la nostra emozione è forte e tra quelle "di base" (ad es. rabbia, paura, tristezza o gioia).
Crescendo, la maggior parte degli individui impara ad integrare i dati che giungono da questi tre diversi livelli in maniera praticamente automatica. Ancora, per eseguire l'integrazione di questi diversi dati si sviluppano tutta una serie di strategie che sono comuni rispetto ai diversi individui presi nel loro insieme ma presenti in una combinazione praticamente unica all'interno di ciascun singolo individuo. E qui attenzione, perché mentre la realtà esterna, l'apparato sensoriale che ci permette di reagire ad essa, e così pure le nostre reazioni emotive di livello profondo, più corporeo, hanno in noi una trama in gran parte già preformata, il nostro livello corticale di gestione degli input di questi due dati è alla nascita per molti versi una tabula rasa. Le invarianze tra i diversi individui che è possibile riscontrare nell'organizzazione a livello corticale ci indicano una nostra parte cognitiva filogeneticamente innata, ma praticamente dal momento della nascita se non prima tra tutte le innumerevoli possibilità di organizzazione cerebrale possibili viene effettuata una selezione continua, un ordinamento incessante che nel tempo porta ad un'organizzazione cerebrale unica per ciascun individuo, anche laddove si partiva da corredi genetici identici (è il caso dei gemelli omozigoti).
Questo processo di organizzazione è comune però a qualunque essere vivente, non solo all'uomo. Cos'è che rende l'organizzazione cerebrale dell'uomo allo stesso tempo così tremendamente complicata e così efficace, tale da permettergli di realizzare tutte le incredibili meraviglie che gli sono proprie? Io sostengo (ok, non senza illustri predecessori, spero ve ne verrà in mente qualcuno), che uno degli strumenti più importanti per l'uomo sia il linguaggio verbale. L'uomo ha sviluppato però una molteplicità di linguaggi, quali ad esempio linguaggi artistici di tipo figurativo o musicale, oppure linguaggi formalizzati quale quello matematico, o linguaggi multimodali quali quelli utilizzati nelle comunicazioni massmediatiche.
E' invece con il linguaggio verbale che cerchiamo nella maggior parte dei casi di ordinare nel modo migliore il gran caos informativo che risulta dalla molteplicità degli eventi quotidiani a cui siamo sottoposti.
Attenzione però: l'uso del linguaggio verbale non ci svela mai la totalità nè del mondo esterno nè del mondo interno. Il linguaggio è uno strumento, e in quanto tale oltre a pregi presenta anche difetti, limiti. Si possono cercare approfondimenti al riguardo negli studi di diversi filosofi, o nelle opere di diversi scrittori, o psicologi, o psicoanalisti (ne cito uno solo, Lacan). Un post di Laplaciano che ho molto apprezzato al riguardo è qui.
Ma cosa fa invece l'uomo quando un po' tutti i linguaggi a lui conosciuti falliscono, e rimane preda di sensazioni per lui almeno momentaneamente estranee e fonte spesso di disagio? Spesso, banalmente, consapevolmente o meno cerca sollievo dal caos o dalla forza di determinate sensazioni in "distrazioni" presso rifugi esterni meno o più validi di vario tipo: nell'uso di sostanze psicoattive, o nella fruizione continua delle più svariate forme di intrattenimento (film, giochi, videogiochi, l'ascolto passivo di una radio o di musica), o nell'assunzione di cibo, o nell'attività sessuale, o nei gesti più diversi ripetuti in maniera compulsiva, o in ordinamenti del caos già preformati quali fedi politiche o religiose o quant'altro, o all'interno di rapporti interpersonali di tipo familire, o amicale, o amoroso.
Tutti questi rifugi ci mettono costantemento al riparo dal o a volte per fortuna ci aiutano nel trovare una risposta alle domande implicite che il nostro caos informativo interno ci pone, o a volte invece direttamente ci prevengono dal far caso alla stessa esistenza di determinate domande.
Come si arriva invece alla comprensione di sé?
Sarebbe molto bello saperlo già, ma invece la strada per la scoperta di sé è estremamente personale e in parte anch'essa da scoprire. Diciamo che di sicuro richiede: un prendere atto di quelli che sono i nostri stati d'animo e le nostre senzazioni per come essi si manifestano nei nostri diversi atti creativi e non di tipo verbale, artistico, o relazionale, o quant'altro. Insomma, per come ce li suggeriamo noi stessi nei più diversi linguaggi. A volte però, prima ancora di poter cercare le risposte alle domande implicite nel nostro caos, dovremo cercare proprio le domande, che ci attendono pazientemente appena fuori i più impensabili rifugi. Indubbiamente, la nostra strada prima o poi dovrà attraversare il caos.
In bocca al lupo
Tralasciano di dirti che dopo la magica sparizione del bisogno di farsi e sei o otto mesi di fila senza Sostanze, comincerai a «Entrare in Contatto» con il perché avevi cominciato a fare uso delle sostanze. Quando arrivi a questo punto, comincerai a capire come mai eri diventato dipendente da quello che, in fondo, non era che un anestetico. Viene fuori che «Entrare in Contatto con i Tuoi Sentimenti» è un'altra frase fatta che finisce per mascherare qualcosa di orribilmente profondo e reale*. Si scopre che tanto più è insipida la frase fatta degli Aa, tanto più affilati sono i canini della verità vera che nasconde.
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*Un epigramma più astratto ma più vero che i veterani di sobrietà della Bandiera Bianca a volte preferiscono a questo è: «Non preoccuparti di entrare in contatto con i tuoi sentimenti, saranno loro a contattare te»."
(D.F. Wallace, "Infinite Jest")
Alessitimia
Letteralmente alessitimia sta per "mancanza di parole per le emozioni". I soggetti alessitimici presentano come centrali le seguenti caratteristiche:
"...
- difficoltà a discriminare un'emozione dall'altra, e gli stati somatici dalle emozioni; ...
- difficoltà a comunicare ad altri le proprie emozioni;
- presenza di processi immaginativi coartati, con scarsezza di vita fantasmatica ...;
- presenza di uno stile cognitivo legato allo stimolo, orientato all'esterno ...
..."
(L. Solano, "Tra mente e corpo")
Come sono in relazione tra loro queste due citazioni? Cosa c'entra un romanzo di fantasia con un costrutto psicologico nato nell'ambito dello studio delle patologie psicosomatiche? I collegamenti in realtà sono molteplici, e passano anche attraverso alcuni degli studi e delle teorie di Bion (in particolare quelli sul "pensiero senza pensatore"), nonchè attraverso la conoscenza delle basi di quanto ci è noto sulle emozioni. Ad ogni modo...
...come un po' tutti sappiamo, ogni giorno il nostro cervello si trova a dover conciliare le esigenze della realtà in cui viviamo (il mondo esterno), con quelle del nostro corpo e della nostra mente (il mondo interno). Un esempio: il nostro corpo reagisce a e sposta la nostra attenzione su quella bella ragazza formosa che sta passando proprio davanti a noi per strada; la nostra mente comincia a considerare il modo migliore di approcciarla (o ignorarla magari) tenendo conto delle nostre presenti o meno esperienze pregresse; la realtà esterna si materializza sotto forma di un grande orologio digitale sul palazzo di fronte che ci ricorda il ritardo di mezz'ora con cui ci stiamo dirigendo verso il luogo del nostro prossimo appuntamento.
Cosa succede a questo punto dentro di noi? come cambierebbe la nostra reazione se per esempio la ragazza avesse affianco a sé un affascinante ragazzo? o se noi ci fossimo appena lasciati con la nostra partner? o se la ragazza fosse una perfetta sconosciuta o magari invece una nostra "vecchia fiamma" da tempo persa di vista?
Non esistono risposte univoche a queste domande. A seconda della nostra personalità (vista in un'ottica biopsicosociale) dentro di noi ci potranno essere una molteplicità di reazioni diverse. Ciò che vorrei far rilevare è come nel caso preso per esempio un evento esterno si ripercuota in noi provocando non solo una serie di reazioni di tipo cognitivo (un susseguirsi di pensieri in forma di ragionamenti, o ricordi, o fantasie) ma anche una serie di cambiamenti di tipo fisiologico (ad es. un vago senso di eccitazione) ad un livello più profondo di quello semplicemente corticale. In un'emozione sono sempre implicati questi tre diversi livelli: quello degli eventi inerenti la realtà esterna, quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di cambiamenti fisiologici profondi, e infine quello degli eventi inerenti la realtà interna in forma di risposte ad un livello un po' più astratto, cioè di tipo cognitivo, mentale. Ora, è chiaro che qualunque evento interno di tipo cognitivo o "mentale" ha dei correlati fisiologici nel nostro cervello; quella che voglio qui evidenziare è però la presenza di una differenza tra una reazione più di tipo corticale o per quanto possibile limitata al sistema nervoso centrale, ed una di tipo più interno, non soltanto sottocorticale ma invece inerente tutto il corpo nel senso di modificazioni al sistema endocrino, all'apparato muscoloscheletrico, a quello vascolare, al piano delle risposte immunitarie, etc. (qui però mi serve davvero l'illuminazione delle neuroscienze per sapere quanto questa mia distinzione sia effettivamente fondata), una reazione tanto più presente quanto più la nostra emozione è forte e tra quelle "di base" (ad es. rabbia, paura, tristezza o gioia).
Crescendo, la maggior parte degli individui impara ad integrare i dati che giungono da questi tre diversi livelli in maniera praticamente automatica. Ancora, per eseguire l'integrazione di questi diversi dati si sviluppano tutta una serie di strategie che sono comuni rispetto ai diversi individui presi nel loro insieme ma presenti in una combinazione praticamente unica all'interno di ciascun singolo individuo. E qui attenzione, perché mentre la realtà esterna, l'apparato sensoriale che ci permette di reagire ad essa, e così pure le nostre reazioni emotive di livello profondo, più corporeo, hanno in noi una trama in gran parte già preformata, il nostro livello corticale di gestione degli input di questi due dati è alla nascita per molti versi una tabula rasa. Le invarianze tra i diversi individui che è possibile riscontrare nell'organizzazione a livello corticale ci indicano una nostra parte cognitiva filogeneticamente innata, ma praticamente dal momento della nascita se non prima tra tutte le innumerevoli possibilità di organizzazione cerebrale possibili viene effettuata una selezione continua, un ordinamento incessante che nel tempo porta ad un'organizzazione cerebrale unica per ciascun individuo, anche laddove si partiva da corredi genetici identici (è il caso dei gemelli omozigoti).
Questo processo di organizzazione è comune però a qualunque essere vivente, non solo all'uomo. Cos'è che rende l'organizzazione cerebrale dell'uomo allo stesso tempo così tremendamente complicata e così efficace, tale da permettergli di realizzare tutte le incredibili meraviglie che gli sono proprie? Io sostengo (ok, non senza illustri predecessori, spero ve ne verrà in mente qualcuno), che uno degli strumenti più importanti per l'uomo sia il linguaggio verbale. L'uomo ha sviluppato però una molteplicità di linguaggi, quali ad esempio linguaggi artistici di tipo figurativo o musicale, oppure linguaggi formalizzati quale quello matematico, o linguaggi multimodali quali quelli utilizzati nelle comunicazioni massmediatiche.
E' invece con il linguaggio verbale che cerchiamo nella maggior parte dei casi di ordinare nel modo migliore il gran caos informativo che risulta dalla molteplicità degli eventi quotidiani a cui siamo sottoposti.
Attenzione però: l'uso del linguaggio verbale non ci svela mai la totalità nè del mondo esterno nè del mondo interno. Il linguaggio è uno strumento, e in quanto tale oltre a pregi presenta anche difetti, limiti. Si possono cercare approfondimenti al riguardo negli studi di diversi filosofi, o nelle opere di diversi scrittori, o psicologi, o psicoanalisti (ne cito uno solo, Lacan). Un post di Laplaciano che ho molto apprezzato al riguardo è qui.
Ma cosa fa invece l'uomo quando un po' tutti i linguaggi a lui conosciuti falliscono, e rimane preda di sensazioni per lui almeno momentaneamente estranee e fonte spesso di disagio? Spesso, banalmente, consapevolmente o meno cerca sollievo dal caos o dalla forza di determinate sensazioni in "distrazioni" presso rifugi esterni meno o più validi di vario tipo: nell'uso di sostanze psicoattive, o nella fruizione continua delle più svariate forme di intrattenimento (film, giochi, videogiochi, l'ascolto passivo di una radio o di musica), o nell'assunzione di cibo, o nell'attività sessuale, o nei gesti più diversi ripetuti in maniera compulsiva, o in ordinamenti del caos già preformati quali fedi politiche o religiose o quant'altro, o all'interno di rapporti interpersonali di tipo familire, o amicale, o amoroso.
Tutti questi rifugi ci mettono costantemento al riparo dal o a volte per fortuna ci aiutano nel trovare una risposta alle domande implicite che il nostro caos informativo interno ci pone, o a volte invece direttamente ci prevengono dal far caso alla stessa esistenza di determinate domande.
Come si arriva invece alla comprensione di sé?
Sarebbe molto bello saperlo già, ma invece la strada per la scoperta di sé è estremamente personale e in parte anch'essa da scoprire. Diciamo che di sicuro richiede: un prendere atto di quelli che sono i nostri stati d'animo e le nostre senzazioni per come essi si manifestano nei nostri diversi atti creativi e non di tipo verbale, artistico, o relazionale, o quant'altro. Insomma, per come ce li suggeriamo noi stessi nei più diversi linguaggi. A volte però, prima ancora di poter cercare le risposte alle domande implicite nel nostro caos, dovremo cercare proprio le domande, che ci attendono pazientemente appena fuori i più impensabili rifugi. Indubbiamente, la nostra strada prima o poi dovrà attraversare il caos.
In bocca al lupo
7 commenti:
Caro Longbeard Cux,
mi piacerebbe aprire una discussione su molti dei punti menzionati, quello che mi interessa di più però è la tua conclusione.
Mi chiedo, se tutto può essere problema o meglio "riparo/distrazione dal" e allo stesso tempo soluzione o "aiuto":
1. in che modo allora comprendere noi stessi dipende dal nostro comportamento?
2. è un'informazione utile sapere che uno si droga oppure no per aiutarlo a comprendere/risolvere i suoi dilemmi?
Mi sembra che in ultima analisi tu suggerisca che l'individuo è la misura di tutte le cose e dunque l'unica diagnostica plausibile sia individualmente fondata.
Se così fosse, sarebbe come dire vivere in un paese dove non ci sono leggi, ma solo giudici. E mi pare un'idea strana, considerato che i bisogni fisiologici di persone diverse sono sostanzialmente sovrapponibili. Non è importante che vi siano risposte univoche, ma che ve ne siano alcune statisticamente più efficaci di altre, stesso motivo per cui l'aspirina ha raggiunto una diffusione più ampia del latte col miele come rimedio contro il raffreddore.
Ciao cari,
a mio parere la conclusione, che si apre con la domanda "Come si arriva alla comprensione di se?" non è da comprendersi ad un livello diagnostico, non essendo la comprensione di se rilevante per alcuna diagnosi.
Penso che si volesse sottolineare come non vi sia una ricetta univoca per arrivare alla comprensione di se, ma che sia un cammino lungo, faticoso e, per sua stessa definizione, individuale.
Oh scrivente, interpreto bene il tuo pensiero?
A presto
Stefano
Ciao a entrambi,
son contento di leggere le vostre osservazioni e domande, mi stimolano a riflettere ancora.
Ecco cos'altro ho pensato:
-quasi quoto, la comprensione di sé nella forma in cui l'ho qui proposta non prevede alcuna diagnosi (almeno certamente non di tipo clinico; è quella la diagnosi in questione?), nè come punto di partenza, nè come punto di arrivo. E' un modello che per quanto impreciso si rivolge a chiunque. Certo, le nostre esperienze sono confrontabili con quelle altrui, perciò chi utilizzando questo modello si dovesse riconoscere in qualcun altro è liberissimo di farlo, ed anzi ben venga. Questo lo aiuterà tanto più quanto più la soluzione già pronta che si è trovato all'esterno gli dovesse calzare a pennello, in caso contrario gli sarà di ostacolo esattamente come gli altri "rifugi-dal" / "rimedi-per-ordinare-il" caos citati (scrivo così, ma ho una grande stima nell'utilità anche degli ostacoli ai fini della propria comprensione).
-"Cammino lungo e faticoso" ok, quoto, e aggiungerei anche che è tanto lungo perchè è virtualmente infinito. Se nella comprensione di noi stessi entra continuamente in gioco anche il mondo con i suoi eventi esterni, a meno che esso non si ripeta perfettamente identico giorno per giorno dovremo confrontarci quotidianamente con degli stati interni almeno parzialmente nuovi. E' chiaro che il versante biologico invece non cambia poi così tanto (anche se quando cambia si fa sentire, vedi i momenti dell'adolescenza, della gravidanza, della percezione dell'invecchiamento, etc etc), e questo in parte ci agevola.
Tuttavia, grazie ai suoi propri sensi e a tutti gli altri strumenti di osservazione che si è costruito (linguaggi vari compresi) l'uomo ha raggiunto un grado molto elevato di accordo sulla maggior parte delle "descrizioni" dei fenomeni del mondo che lo circondano. E comunque la possibilità di far riferimento per esempio all'immagine di un ponte ci aiuta decisamente molto nel capire cosa esso sia. Sulle descrizioni del mondo interno invece c'è un grado d'accordo molto minore: nessuno di noi può (geralmente? vedi più oltre) aprire una comoda finestrella sul proprio cuore o sulla propria mente per mostrare esattamente a sé o ad un altro cosa ci si stia svolgendo.
-Cammino "individuale". E' individuale nella sua accezzione di "da svolgersi e scoprirsi per ognuno in prima persona". Non lo è invece nella sua accezione di "solitario", in quanto gli altri c'entrano indubbiamente qualcosa in molto di quanto ci succede (quindi a volte in parte nella stessa determinazione dell'assetto del nostro mondo interno).
Ma non solo: a volte il confronto con gli altri nel suo dispiegarsi in identificazioni e in differenze rispetto a loro ci offre talvolta almeno un abbozzo proprio della famosa succitata "finestrella" (gli amanti della lettura avranno forse anche più chiaro in mente questo fenomeno).
Infine, a volte gli altri possono darci validi aiuti nel comprenderci, ma essi sono più lontani dal nostro mondo interiore di quanto non lo siamo noi, hanno meno informazioni su di noi rispetto a noi stessi, e pertanto difficilmente possono avere su di noi l'ultima parola
Veniamo ora alle domande fattemi:
"1. in che modo allora comprendere noi stessi dipende dal nostro comportamento?"
Il nostro comportamento è leggibile anch'esso alla stregua di un linguaggio.
Ben lo sanno i comportamentisti che ormai da quasi un secolo cercano di fondare la psicologia accademica su di esso (per ottenere una finestrella che sia particolarmente solida e condivisibile). Sono in disaccordo con il loro discorso, mi sembra estremista, ma non è che per questo disconosco l'importanza del comportamento.
"2. è un'informazione utile sapere che uno si droga oppure no per aiutarlo a comprendere/risolvere i suoi dilemmi?"
Il senso di questa domanda in parte mi sfugge. Ti riferisci alla diagnosi di una tossicodipendenza? Il discorso sulla diagnosi sarebbe ben lungo, in ogni caso mi ripeterei rispetto al mio post precedente.
O forse ti riferisci al gesto di drogarsi in sé? Se ti riferisci al singolo gesto la mia risposta è che questo non è che uno dei casi particolari di comportamento a cui facevi riferimento nella domanda precedente (giusto?), e che quindi sì, certo, forse potrebbe dirci qualcosa della persona, e aiutarla/aiutarci a comprendersi/comprenderla. Una cosa però è comprendere, un'altra è risolvere.
Ok, detto questo: io non mi riconosco nel "Mi sembra che in ultima analisi tu suggerisca che l'individuo è la misura di tutte le cose e dunque l'unica diagnostica plausibile sia individualmente fondata".
Un po' perchè nel post non parlo di diagnosi (ripeto, di sicuro almeno non nel suo senso tecnico, perciò non capisco bene per diagnosi cosa intendi dire), e un po' perché l'individuo di cui parlo è sempre nel mondo, e non può non far riferimento anche al mondo per la comprensione di sé.
Ti sembra ancora che sia come scrivi dopo le precisazioni che ho fatto? Nel caso puoi ripetermi con altre parole cosa intendi dire?
Bene, è evidente che non ho saputo spiegarmi.
La vituperata "diagnostica" a cui facevo riferimento non è, in prima istanza, quella di un terapeuta nei confronti di un paziente. Secondo il post iniziale, i medesimi comportamenti possono essere letti come (oppure: giocare il ruolo di) distrazioni oppure aiuto.
Allora se io considero il mio comportamento, posso approcciarmi ad esso con una diagnosi - questo mi fa bene, questo mi fa male, la ragione di questo sta in questa causa - e una prognosi - voglio cambiare questo punto in questo modo e in questi tempi.
In altre occasioni abbiamo osservato come questo possa essere fatto tanto da noi stessi quanto, mediante un procedimento simile, da un terapeuta.
Perciò mi è più o meno indifferente considerare il punto di vista terapeutic0.
La mia prima domanda significa: se ubriacarmi il sabato sera può essere sia il problema che la soluzione, questo non vuol forse dire che è indifferente che io mi ubriachi o no ai fini del mio cammino di acquisizione della consapevolezza? Ancora, esistono oppure no comportamenti che denotano una chiara mancanza di consapevolezza o che la ostacolano senz'altro?
Se poi (seconda domanda) il comportamento non "parla" da sè, allora è comunque importante conoscere i fatti della vita di una persona, nel ruolo del terapeuta? Non sarebbe a questo punto più appropriato esaminare i processi mentali, senza alcuna attinenza coi fatti?
Condivido il fatto che il cammino sia individuale nella misura in cui lo effettua una persona a beneficio diretto di sè stessa. Il punto che io sollevo è che il risultato di questo cammino e il percorso stesso può benissimo essere applicabile a tante altre persone, in misura piuttosto variabile e proporzionale alla comunicabilità dei contenuti.
Insomma è la solita diatriba oggettivismo/soggettivismo :D ben lo sa Longbeard Cux con il suo libro sulle dicotomie epistemologiche ;)
Peraltro io ho smesso - di recente - di essere convinto che la consapevolezza di sè sia un traguardo da raggiungere. Credo che sia anch'essa uno strumento e dice bene Longbeard Cux che conoscere e curare sono cose ben diverse.
C'è una certa differenza tra il "mi fa bene" - "mi fa male" dal punto di vista emozionale, e il "mi aiuta a comprendere me stesso" ed il "non mi aiuta a comprendere me stesso" (nel senso di "mi distrae dal mio vissuto più profondo"). Il rischio costante dell'agire su cose che ci fanno bene o male in maniera affrettata è che risolta una cosa che ci fa del male ne spunti poi subito un'altra. Anche il male purtroppo ha una sua ragion d'essere in noi.
Si dice dei sintomi che sono "il miglior adattamento che è stato possibile ad una persona raggiungere in quel dato momento della sua vita". Si ritiene insomma che i sintomi siano per lo più indicativi di un malessere "altro". Uno può anche auto-togliersi i sintomi, poniamo, ma non è affatto detto che così facendo risolva il malessere. E se non lo fa, degli altri sintomi non potranno non saltar fuori, anzi: farà bene ad aspettarseli.
Credevo che tutti questi concetti fossero più o meno noti, ma a questo punto meglio ripeterli.
Ora: "è indifferente che io mi ubriachi o no ai fini del mio cammino di acquisizione della consapevolezza?"
L'ubriacarsi è probabilmente uno di quei comportamenti che, quando abituale, ha più di tutti lo scopo di mettere a tacere il nostro malessere e di distrarci dalla fatica della percezione delle nostre sensazioni e/o da eventuali tentativi di comprensione.
Fallo una volta, appena mollato da una ragazza, e magari affronterai il momento peggiore, più duro, e l'indomani sarai in grado dopo una bella dormita di andare avanti. Fallo un mese, un anno di fila... ...e ne riparliamo.
"Ancora, esistono oppure no comportamenti che denotano una chiara mancanza di consapevolezza o che la ostacolano senz'altro?"
Ad occhio e croce gli atti creativi indicano sempre qualcosa di noi (ero tentato di mettere del creatore, ma è meglio non esagere! :), e ci danno una mano nel comprenderci . Gli eventi ricreativi passivi, acefali, di abbandono, sono più che altro un riparo dalle sensazioni, distrazione.
Ho capito cosa vuoi dire sulla generalizzabilità di determinate scoperte personali. Ripeto: è fattibile, in certi casi decisamente molto più di altri, ma ha dei limiti. Non ho assolutamente mai detto che non fosse possibile, questo è stato dedotto erroneamente.
Veniamo infine al "Peraltro io ho smesso - di recente - di essere convinto che la consapevolezza di sè sia un traguardo da raggiungere."
Questo mi dispiace molto. Io credo fermamente che questo sia per ogni individuo un traguardo molto importante, direi fondamentale, sia di per sé, sia in vista della ricerca di un cambiamento nel nostro modo di essere. Quello che volevo dire è semplicemente che la comprensione non ci garantisce di per sé la magica "cura" dai problemi che tutti vorremmo.
Cari amici,
la discussione ha preso una piega veramente interessante, grazie di cuore.
Vorrei dare un piccolo contributo al problema: "Consapevolezza: mezzo o fine?".
Giulio, mi pare tu ti muova nella prospettiva: "Esiste una condizione intrinsecamente buona (o felice o equilibrata o quello che volete voi...) dell'individuo. Tutto quello che mi porta al raggiungimento di tale condizione è bene, tutto ciò che non lo fa è male".
Da questo, ne deduci giustamente che la comprensione di se' è buona solo nella misura in cui mi aiuti, statisticamente, a raggiungere la detta condizione.
Daniele, invece, risponde: "È chiaro che la comprensione di se' è sempre statisticamente un aiuto e mai di danno. Dunque possiamo smetterla di considerarla un mezzo, e considerarla un fine."
Secondo me, in sostanza, affermate la stessa cosa, solo con nuances un po' diverse.
A presto
Stefano
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